Bene le proteste in Israele, ma... - di Alessandra Mecozzi

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Bellezza e ingiustizia, amicizia e rabbia, natura e arte si intrecciano sempre nei miei viaggi in Palestina. Nel più recente, dopo aver attraversato Ramallah, Nablus, Sabastia, Jenin, Dheisheh Camp (Betlemme), Hebron e Masafer Yatta, gli ultimi giorni sono trascorsi a Gerusalemme, dove finalmente ho potuto godere qualcosa del Festival della musica della scuola di Al Kamandjati, in altre città cancellato nei giorni precedenti per il succedersi, ormai quotidiano, di avvenimenti luttuosi: la morte di Adnan Khader dopo un lungo sciopero della fame nel carcere israeliano, l’uccisione a Nablus di altri tre ragazzi...

A Gerusalemme ho incontrato anche amici e amiche israeliane e li ho interrogati sulla situazione in Israele, sul senso delle proteste che ogni settimana portano migliaia di persone nelle strade, invocando democrazia.

“La questione principale, e sorprendente, che caratterizza la situazione in Israele è l’estrema debolezza di Netanyahu”. Così inizia Michel Warshawski (Mikado). “Lui è interamente nelle mani della destra estrema. Ben Gvir, ministro della Sicurezza nazionale, e Smotrich, ministro delle Finanze, malfattori, senza strategia politica, sono anche quelli che hanno spinto per l’attacco di questi giorni a Gaza. Netanyahu li segue, per la paura di finire in prigione. Queste manifestazioni hanno portato alla luce un movimento, una società civile attiva, che vuole altro, che si interroga su ‘dove va Israele’: ma il problema è che non ci sono alternative politiche. E poi è sì un vero movimento ma tra soli ebrei, non ha niente a che vedere con la Palestina. Questa società è divisa in due: una maggioranza nettamente di destra e una minoranza importante, che io chiamo ‘Tel Aviv’, ovvero una parte di società non ideologica, nell’hi tech, che vuole consumare...Da almeno due anni molti delle élites e ne vanno. Ironia della storia vanno a Berlino, che è diventata la capitale della ricerca e della cultura ebraica!”.

“Eppure - sottolinea Zvi Schuldiner, professore di scienze politiche ed economiche - ho visto che in Germania chi critica Israele, come me, è considerato antisemita. Nelle proteste inneggiano alla democrazia, magari anche quelli che non sanno cosa sia: per noi, per la sinistra radicale, la democrazia non c’era neanche prima, c’è etnocrazia. I manifestanti dicono che questa è dittatura, ma i palestinesi stanno sotto dittatura da decenni! C’è chi rifiuta di andare alle manifestazioni e chi, anche tra i palestinesi, dice che è importante andare, anche senza bandiera palestinese. Penso che se tutti parlano di democrazia, si apre lo spazio per un dialogo nuovo, i giovani partecipano e questo è importante. Anche chi ha votato a destra oggi è contrario alla riforma giudiziaria. Ma dobbiamo sapere che il diritto difende sempre interessi di classe... Noi vecchi siamo conservatori forse...”.

Tra coloro che non vanno alle manifestazioni c’è Orna Akad, scrittrice e regista di teatro, della generazione di mezzo, sposata con un palestinese, vive a Tel Aviv. Parla di un sentimento duplice: “Da una parte sono molto contenta che la gente scenda in piazza, ma d’altra parte io non vado a manifestare con la bandiera israeliana quando quella palestinese è proibita. Una democrazia solo per gli ebrei non è democrazia. Due settimane fa i piloti hanno dichiarato che senza democrazia non avrebbero partecipato a operazioni militari. E adesso però nessuno rifiuta di bombardare Gaza, e io mi vedo davanti quelle facce di ragazzini ammazzati. Queste sono manifestazioni sostenute da chi ha soldi e potere, come Lapid o Gantz, la cosiddetta opposizione. Il problema non è Netanyahu. Io andrei alle manifestazioni con uno slogan che qualcuno ha portato a Tel Aviv, molto mal visto: 'Non c’è democrazia con l’occupazione’. È come in Sudafrica: non poteva esserci democrazia solo per i bianchi, qui non può esserci senza palestinesi…”.

 

Possiamo concludere con le parole di Mustafa Barghouti, storico dirigente palestinese, fondatore di Mubadara (iniziativa nazionale), su The Guardian: “Questo doloroso anniversario (Nakba) e l’orrenda realtà attuale devono costringere i politici occidentali e i leader della società civile a pensare senza paradigmi obsoleti. Non possiamo cambiare il passato, ma l’unica soluzione per un futuro post-apartheid è un unico stato democratico in cui tutti i cittadini abbiano uguali diritti e uguali doveri”.

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