Mario Tronti. “Un rivoluzionario in esilio” - di Francesco Palaia

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Il percorso politico e intellettuale di Mario Tronti è stato lungo e, per certi aspetti, tortuoso. Il libro “Operai e capitale” (1966) resta un passaggio decisivo per riflettere sul suo contributo politico-filosofico; ha assunto (e assume ancora oggi) un rilievo eccezionale. Il libro (perlopiù saggi apparsi su “Quaderni rossi” e “Classe operaia”) rivoluziona in modo copernicano il linguaggio della teoria marxista, che veniva linguisticamente “svecchiata” in modo radicale.

Tronti non parlava più un gergo ottocentesco, idealistico, storicistico. Cercava espressioni secche e sintetiche. Usava la lingua della grande cultura antistoricista, di Nietzsche, di Weber, di Musil. La rivoluzione linguistica (oltre che politica) era innanzitutto una rivoluzione culturale. Per primo, dopo gli esponenti della scuola di Francoforte (negli anni ’40), Tronti contaminava Marx con Nietzsche. E, attingendo al nichilismo e al pensiero negativo (nelle cui maglie si sarebbe immerso poco dopo Massimo Cacciari) demoliva tutto il bagaglio della cultura storicista e progressista, sbarazzandosi della leggenda di una cultura borghese progressiva che il movimento operaio avrebbe dovuto ereditare, e congedandosi da ogni critica sociale di tipo umanistico per attestarsi su una posizione che chiamava il “punto di vista operaio”. Un’operazione in sintonia con quella, negli stessi anni, di Alberto Asor Rosa, che demoliva il progressismo letterario nel suo “Scrittori e popolo” (1965).

In quegli straordinari anni ‘60, conclusi con l’esplosione delle lotte operaie e sindacali, dei grandi movimenti studenteschi e giovanili, gli “operaisti” proponevano una ipotesi radicale di marxismo rinnovato, che si affiancava a quelle della scuola di Francoforte e di Althusser. La peculiarità dell’operaismo era che in esso teoria e politica marciavano insieme, cosa molto meno vera per gli altri neomarxisti. Si sviluppano così le grandi esperienze politico-culturali di cui Tronti è tra i protagonisti. Prima la rivista e il gruppo di “Quaderni Rossi”, che fa capo a Torino e a Raniero Panzieri. Poi la separazione da Panzieri in nome di un recupero del leninismo, e la nuova esperienza politica attorno alla rivista “Classe operaia”, che cessa nel 1967. Segue la partecipazione alla rivista “Contropiano”, fondata nel ‘68 da Asor Rosa, Cacciari e Negri.

È in questo contesto culturalmente e socialmente vivacissimo che nascono le grandi innovazioni teoriche trontiane, come la politicizzazione della teoria (non c’è scienza neutrale, ma punti di vista di classe contrapposti) e soprattutto l’idea che nel confronto/scontro tra classe operaia e capitale la classe non è l’elemento passivo, ma attivo; è la classe che ha l’iniziativa, la sua lotta costringe il capitale a rinnovarsi e trasformarsi; a partire da essa che vanno comprese le dinamiche di sviluppo della società.

Anche quando inizierà la fase del “riflusso”, Tronti continuerà la ricerca di una prospettiva altra e radicale dalla quale mettere in discussione le certezze della tarda modernità democratico-capitalistica. Verso la fine degli anni ‘70 si sviluppa la sua riflessione sulla “Autonomia del politico”, e si snoda la riflessione teorica sui grandi autori della politica moderna: Machiavelli, Hobbes, Hegel, Carl Schmitt.

Tronti insisteva sulla necessità di concepire la democrazia come una struttura di potere, in fondo negli stessi termini in cui l’aveva posto il ’68, e di cercare nuove forme di partecipazione democratica capaci di incidere sul potere capitalistico. Vi erano indirettamente dei punti di contatto con la riflessione sui consigli di fabbrica e la democrazia consiliare di Lucio Magri, con la grande differenza che quest’ultimo non accettava l’autonomia del politico: eppure la ricerca di nuove forme di democrazia partecipata poneva un’esigenza che il neoliberismo ha frantumato in un sistema dove i partiti si sono conformati a ciò che diceva la Thatcher: “There is no alternative”. In un’intervista a “il manifesto”, Tronti si mostrava molto ironico nei confronti dell’atlantismo di sinistra, sottolineando che “la sinistra deve aprire il conflitto sociale piuttosto che fare il contrario”.

Paradossalmente, questa ricerca viene sempre più segnata dalla consapevolezza che, finito il ‘900, la grande politica se n’è andata, e appare sempre più consegnata all’incapacità di incidere sulla totalità onnipervasiva del neoliberismo capitalista e autoritario. Nella sua critica della omologazione democratico-capitalistica, del totalitarismo morbido che la caratterizza, della servitù volontaria che l’accompagna, Tronti sembra seguire le orme del Tocqueville critico della democrazia in America. Mentre la sua ricerca di un’alternativa radicale lo rende sempre più attento alle tematiche della religione e della teologia politica.

Di sé ha detto: “Chi è contro oggi sarà considerato contro anche domani. In fondo, il mio può declinarsi come un caso di 'innere Emigration', di presenza e di isolamento sia dentro la società nemica che dentro la politica amica: presenza scaricata nel libero spirito della lotta, isolamento sublimato nella libera scelta della solitudine. Ecco la mia libertà comunista”.

 

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