Perché la (ulteriore) privatizzazione di Poste Italiane non è una buona idea - di Nicola Atalmi

È necessaria una mobilitazione di tutta la Cgil, perché non si tratta di una normale vertenza sindacale ma riguarda i diritti sociali di cittadine e cittadini.

“La privatizzazione di Poste italiane sarebbe una follia e su questo tema chiederò al centrodestra di dire una parola chiara. Parliamo di 140mila dipendenti, di 13mila sportelli aperti sul territorio, di 500 miliardi degli italiani raccolti a vario titolo come risparmio, e di un assoluto gioiello che è stato già privatizzato per il 35% dai governi di Pd e di sinistra, con un altro 35% trasferito in Cassa depositi e prestiti. Rimane nella disponibilità del Tesoro un 30% , che ora dicono di voler privatizzare. Con la sua presenza capillare sul territorio Poste italiane costituisce un presidio dello Stato, tra i pochissimi ancora aperti in luoghi come i comuni montani, le periferie degradate, i territori difficili: chiudere gli sportelli vorrebbe dire togliere ai cittadini un punto di riferimento di servizi dello Stato. Una scelta miope che può portare a pensati conseguenze”.

Così tuonava la Giorgia Meloni di opposizione di soli cinque anni fa, ma sappiamo quanto le destre sovraniste siano spregiudicate nella propaganda. Per cui nessuno scrupolo a fare esattamente l’opposto quando entrano nella stanza dei bottoni. Così il governo Meloni & Giorgetti, l’uomo per tutte le stagioni, ha annunciato di voler procedere ancora a ulteriori privatizzazioni, per far fronte alle note difficoltà di bilancio. Si parla 20 miliardi in tre anni, che dovrebbero entrare nelle casse pubbliche dalla vendita di quote degli ultimi gioielli di famiglia: l'Eni, le Ferrovie dello Stato e, appunto, Poste Italiane.

Attualmente il gruppo Poste Italiane, come è noto, è per il 65% in mano pubblica, con un 30% in mano al Tesoro e un 35% in mano a Cassa Depositi e Prestiti. Ora in particolare il governo punta a mettere sul mercato fino al 29% della società Poste Italiane, vendendo praticamente tutte le azioni del Tesoro per incassare una cifra ipotizzabile che va dai 3 ai 4 miliardi di euro.

Questa scelta è molto pericolosa per almeno due ragioni: la prima, fin troppo chiara, è che le entrate che deriverebbero da questa vendita non potrebbero essere utilizzate per spesa corrente, come stabilito dai vincoli europei, ma solo come abbattimento del debito, per cui l’effetto positivo sarebbe una diminuzione dello 0,14% del nostro debito pubblico.

Senz’altro l’Europa e gli investitori internazionali sarebbero impressionati da questa poderosa inversione di tendenza! Peraltro con questa svendita si verrebbero a perdere gli ottimi dividendi che incassiamo: mediamente 250 milioni l’anno. Ci ricorda il vecchio proverbio del dilemma tra un uovo oggi o la gallina domani…

Il secondo pericolo è anche maggiore: aumentare, e di molto, la quota di proprietà di Poste Italiane affidata ad azionisti privati come i fondi speculativi spingerà sempre più il management dell’azienda a cercare utili e rialzi immediati, a scapito del ruolo pubblico fondamentale che questa azienda cerca di svolgere con sempre maggior fatica ed a spese dei propri dipendenti.

Poste Italiane garantisce, con la sua presenza capillare nel territorio con i suoi sportelli fisici, un servizio che da tempo le banche e le multiutility dell’energia e dei servizi non svolgono più. Spesso l’ufficio postale e il recapito di lettere e raccomandate nei comuni minori e più isolati sono l’unico presidio rimasto cui rivolgersi per il pagamento di una bolletta, la riscossione di una pensione, il ritiro di un pacco o una raccomandata. In particolare si tratta di un servizio rivolto a quella parte della popolazione, non solo anziana, che non svolge ancora da remoto, e forse non lo farà mai, tutte le pratiche con l’ausilio di un telefonino o un computer. Lo sa bene anche la Pubblica amministrazione che, trovandosi al collasso nella predisposizione e consegna di carte di identità e passaporti, si sta affidando proprio alla rete di Poste Italiane.

Rischiamo anche che i finanziatori privati suggeriscano di spezzettare l’azienda dividendo gli uffici dai recapiti, con i grandi risultati che abbiamo visto in Italia anche recentemente. Per non parlare delle possibili ripercussioni in termini di occupazione e di qualità del lavoro per quella che, ricordiamo, è la più grande azienda italiana per numero di addetti.

 

Per questo motivo crediamo sia necessaria una mobilitazione di tutta la Cgil, assieme alla categoria della Slc, con in particolare un sostegno da parte delle compagne e compagni dello Spi, perché non si tratta di una normale vertenza sindacale che riguarda le lavoratrici e i lavoratori di Poste ma riguarda i diritti sociali dei cittadini. Dobbiamo anche coinvolgere i sindaci, le Regioni e tutte le parti sociali contro questa ipotesi scellerata di svendita di un patrimonio strategico per il nostro Paese.

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