Il carico dei 101 che ha sterilizzato la pratica dei respingimenti in Libia - di Jean-René Bilongo

La pronuncia della Suprema Corte del primo febbraio scorso segna uno spartiacque netto sulle controverse collusioni tra l’Italia e la Libia nell’ottica dei respingimenti di migranti intercettati in mare verso l’ex Gran Giamahiria Araba. Ripercorriamo la vicenda per coglierne i contorni.

Il 30 luglio 2018 il natante battente bandiera tricolore “Asso 28” avvista un’imbarcazione di migranti alla deriva a 35 migliaia nautiche dalle coste libiche. In 101, di cui cinque minorenni, cinque donne in stato interessante e 91 uomini allo stremo delle forze vengono trasbordati sull’imbarcazione soccorritrice. Il comandante sceglie semplicemente di consegnarli alla Guardia costiera libica.

E' una vicenda oggetto di un intricato contenzioso incardinato a Napoli, che sfocia nella condanna del comandante di “Asso 28”, sia in primo grado che in appello, per violazione di statuizioni sancite dal diritto internazionale sul soccorso in mare. Si recrimina al comandante dell’imbarcazione italiana di aver omesso “di identificare i migranti, di assumere le informazioni in ordine alla loro provenienza e nazionalità, sulle loro condizioni di salute, di sottoporli a visita medica, di accertare la loro volontà di chiedere asilo, nonché di accertare se i minori fossero accompagnati o soli”.

Il comandante di “Asso 28” aveva semplicemente concordato un secondo trasbordo dei migranti sui natanti militari libici. Cioè anziché portare i migranti in un porto sicuro che non poteva essere la Libia, ha attuato di sua iniziativa un respingimento collettivo, senza raccordarsi con i Centri di coordinamento e di soccorso competenti. Una scelta che la Suprema Corte reputa gravemente dannosa per i migranti, in ragione dei rischi dagli stessi incorsi in quel paese.

Il pronunciamento della Cassazione sancisce una volta per tutte che “la consegna di persone migranti soccorse in mare alla Guardia costiera libica può configurare un’ipotesi di reato di abbandono in stato di pericolo di persone minori” su uno sfondo di “sbarco e abbandono arbitrario di persone”, tutte fattispecie contemplate e punite sia dal Codice Penale (art. 591), sia dal Codice della Navigazione (art. 1155).

La pronuncia della Cassazione sembra dare ragione a chi, fin dall’inizio degli accordi di “esternalizzazione” delle frontiere, grida ai quattro venti il proprio disappunto per la delega ostracizzante, profumatamente pagata dal governo italiano, conferita ai libici per riportare indietro i migranti intercettati nel tentativo di raggiungere le coste della penisola.

Dal 2016 l’Italia forma, finanzia ed equipaggia la Guardia costiera libica, con il sostegno della Commissione europea. Meno di una settimana dopo la sentenza della Cassazione, l’esecutivo ha consegnato ai libici la prima di un novero di cinque potenti motovedette inaffondabili per intercettare i migranti in fuga verso l’Europa. Eppure, è stato abbondantemente documentato dagli attivisti, dalla stampa e dal corpo diffuso della sussidiarietà sociale che i migranti respinti in Libia sono rinchiusi in strutture di detenzione in cui violenze e torture sono all’ordine del giorno.

Per Amnesty International “dal 2017 (…), quasi 100mila persone sono state intercettate in mare dalla Guardia costiera libica e riportate forzatamente in Libia, un paese che non può essere considerato sicuro. La vita dei migranti e rifugiati in Libia è costantemente a rischio, tra detenzioni arbitrarie, abusi, violenze e sfruttamento”.

Nell’annuario ricapitolativo per il 2022 dei movimenti di rifugiati e migranti attraverso il Mediterraneo centrale, Unhcr e Oim esprimono preoccupazione per il “trasferimento delle persone sbarcate in Libia verso una detenzione arbitraria e prolungata in luoghi di detenzione ufficiali e non ufficiali”.

Anche la missione della Nazioni Unite in Libia ammette di “ricevere segnalazioni di sparizioni forzate e detenzioni arbitrarie prolungate (…) nelle carceri e nei centri di detenzione in tutto il Paese”: uomini e donne sottoposti a maltrattamenti, violenze, torture o pratiche sessuali coercitive in cambio di acqua, cibo o beni di prima necessità. Un simile girone dantesco non può essere considerato porto sicuro, come ha puntualizzato la Suprema Corte sulla vicenda “Asso 28”.

La Cassazione sembra anche affermare implicitamente che non respingere verso la Libia vuol dire proteggere i valori fondamentali delle società democratiche, tra i quali è incluso il divieto della tortura, di altre pene e il loro corollario di trattamenti crudeli, inumani o degradanti. La Libia ne è evidentemente agli antipodi.

 

 
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