Ridurre l’orario di lavoro. Per i diritti delle persone e della natura - di Mario Agostinelli

Contro il falso mito della neutralità della scienza, il mondo del lavoro deve saper criticare il salto della tecnologia finalizzato al controllo e all’esclusione, come la galoppante avanzata dell’Intelligenza Artificiale.

Apprezzando molto l’articolo di Giovanni Mazzetti sull’orario (https://www.sinistrasindacale.it/index.php/periodico-sinistra-sindacale/numero-05-2024/3108-ridurre-l-orario-di-lavoro-e-redistribuirlo-non-c-e-altra-via-di-giovanni-mazzetti) e sollecitandone l’applicazione - così ben giustificata da un’analisi anche storica dell’evoluzione dei rapporti di produzione - provo qui ad aggiungere ulteriori ragioni che pongono la liberazione e la conquista di “tempo proprio della persona che lavora” come parte centrale della contrattazione sui luoghi di lavoro, e della necessaria modifica di una statica legislazione oggi ancora in vigore.

Siamo fatti di tempo, ma non ne siamo affatto proprietari nella società capitalista. L’espropriazione avviene ad opera di altri esseri umani in un quadro di rapporti di produzione e di sistemi di consumo connaturati alla ricerca del massimo profitto. La politica stessa incide profondamente sul “tempo proprio”: un diritto da cui siamo espropriati in primo luogo quando siamo messi al lavoro, eterodiretti e subordinati.

Occorre ricordare che gli orologi dell’universo vanno a termine all’aumentare dell’entropia, cioè del disordine che cresce irreversibilmente intorno a noi come nell’intero cosmo, dato che l’energia utile consumata (da fonti fossili o, in assai minor misura, da fonti naturali, così come dalle opere umane con l’impiego di sempre più potenti tecnologie) si degrada, contrastando l’autorganizzazione di ogni forma di vita e materia. L’aumento di entropia è un processo che allontana l’equilibrio precario entro cui si sono create, dopo miliardi di anni dall’origine dell’Universo, le condizioni di vita in una finestra energetica molto stretta (misurabile entro un intervallo di poche unità di temperatura).

Per questa ragione lo spreco simultaneo di risorse ambientali e di lavoro, attorno cui è stato costruito il modello di sviluppo industriale che insegue il massimo profitto, non può riproporsi a lungo. Di fronte all’emergenza climatica e al depauperamento della natura, la questione del tempo di lavoro supera l’ambito e l’assetto interno delle società umane: l’eccessiva capacità trasformativa del lavoro, non redistribuita né rallentata, si riverbera con fenomeni bruschi sull’intera biosfera e sulla sua capacità di riproduzione, ponendo in discussione la sopravvivenza di intere specie viventi e, in prospettiva, dell’umanità stessa.

Dallo scontro capitale-lavoro che ha attraversato la storia più recente si va verso un conflitto ancora più esiziale, in quanto entra in campo un terzo attore – la natura – finora sottorappresentato, componente essenziale della sopravvivenza.

Avendo presente questo quadro, ancora flebile quando militavo nel sindacato ma oggi decisivo per il suo futuro, torno all’ambito dei rapporti di produzione. Nel quadro attuale, il prevalere della tecnocrazia nel controllo e nell’assegnazione dei tempi – di lavoro, di consumo, di riposo, di riproduzione, di ozio – accresce la disuguaglianza sociale, mentre la velocità imposta ai processi di produzione e consumo, demolendo i cicli naturali, intacca irreversibilmente la qualità della vita.

In un frangente simile, una politica che ha passato la mano, prova a persuaderci di vivere in un eterno presente. Un “presentismo” che distoglie dal riprogrammare il futuro, indebolisce il ricorso alla memoria, disconnette la società dalle urgenze e dalle leggi che implacabilmente favoriscono insieme la precarietà del lavoro, la sua eccessiva durata, la mancanza di partecipazione dei cittadini alla vita sociale e alla democrazia.

Il tempo, sotto il profilo dell’esperienza esistenziale, percorre la storia sociale: per Voltaire solo gli operai sanno quanto vale il tempo: infatti contrattano per farselo pagare; per Benjamin gli insorti della Comune di Parigi hanno sparato sugli orologi, per far vivere un tempo nuovo; per i ricchi del nuovo millennio l’esibizione dell’orologio al polso mette in mora l’ora pubblica dei campanili. Ma con il prevalere della tecnocrazia dell’era digitale stiamo addirittura assistendo all’accentuarsi della divaricazione tra l’espropriazione del tempo per alcuni, e il suo possesso per altri: infatti si continua abitualmente a lavorare col proprio telefonino ben al di là dell’orario del timbro del cartellino.

Così il riscatto del “tempo proprio” rappresenta un’esigenza primaria dell’esistenza ai giorni nostri. Per soddisfare i bisogni della comunità, il progresso della tecnica esige oggi dagli individui un’attività assai minore rispetto al passato. Eppure il sistema d’impresa punta primariamente a saturare con il massimo di operazioni il tempo retribuito; a non pagare il tempo di attenzione richiesto tra un’operazione e l’altra, e ad allungare di fatto la prestazione lavorativa in base ad una reperibilità incessante.

La strategia d’impresa non fa altro che massimizzare tempo ed energia sotto il profilo economico a lei utile, ma non restituisce né al lavoro né alla natura l’accumulo del loro sfruttamento. Al contrario, dobbiamo batterci affinché l’enorme “dividendo” che si ottiene, a spese del lavoro e della natura, nella nuova organizzazione su scala temporale e spaziale della produzione debba essere restituito dal capitale alla natura, conservando l’ambiente, e distribuito tra i lavoratori, con la riduzione generalizzata e politicamente sostenuta dell’orario di lavoro.

Se non si aprisse subito la battaglia per la riduzione d’orario, con il progredire tumultuoso e incontrollato dell’Intelligenza Artificiale ci troveremmo di fronte ad una sovrappopolazione improduttiva, e il problema non sarà più solo quello classico dello sfruttamento e dell’oppressione, ma quello dell’alienazione di una maggioranza che sarà privata della propria capacità lavorativa. Addirittura espropriata del diritto al lavoro.

Concludo con la esplicitazione di una insolita difficoltà che si frappone tra il sindacato e le sue controparti nella battaglia per la riduzione dell’orario giornaliero e settimanale. Gli orologi biologici degli umani e quelli dei computer battono un tempo diverso, enormemente più lento per gli elaboratori e le trasmissioni digitali: la velocità dei processi umani e di quelli artificiali non sono minimamente comparabili (10 m/sec per l’attività muscolare; 250 Km/sec per quella del cervello; 180mila Km/sec per le operazioni interne ai computer; 300mila Km /sec per le trasmissioni di segnali alla velocità della luce). Da un’epoca del calendario eravamo passati a quella dell’orologio ma ora, quasi inconsapevolmente, siamo entrati in una fase in cui il mondo stesso è una sorta di macchina, i cui fasci di connessioni sono inarrivabilmente più rapidi del funzionamento biologico della nostra mente. La velocità relativa di elaborazione e trasmissione di dati, di informazioni, supera la nostra capacità di comprensione, assimilazione e controllo.

Quindi, mentre una infinità di operazioni logiche o di informazioni sono trasmesse durante un battito di ciglia, siamo di fronte ad una enorme differenza fra la velocità meccanica della prima e seconda rivoluzione industriale (le catene, i telai, i torni) e la velocità elettronica-digitale di quella in corso. L’elettronica e la digitalizzazione hanno contribuito ad estendere enormemente il campo in cui operano fenomeni e velocità comparabili con quelli della luce. Siamo quindi entrati in una fase della riorganizzazione dell’impresa dove il modello è quello neurale, ma con una velocità ancora maggiore di quella accessibile al sistema nervoso umano: un’impostazione che consente una totale eterodirezione del lavoro.

L’alienazione, quindi, va al passo dell’impiego di tecnologie “alla velocità della luce”. Di conseguenza, la ricontrattazione ex-novo non solo dell’orario, ma anche dei ritmi, delle saturazioni – del potere del lavoro – dovrebbe essere preliminare a qualsiasi accettazione di prestazione e di salario conseguente.

La ragione di questa ultima affermazione sta nel fatto che, all’interno di questi apparati artificiali, funziona un tempo relativo ben diverso rispetto a quello a cui risponde l’operatore: un “proprio orologio” del [prodotto-merce-dato] che entra in conflitto con il tempo proprio che ci sta caro, e di cui abbiamo coscienza-esperienza attraverso sistemi biologici di molti ordini di grandezza più lenti.

Emerge dunque una discrepanza con l’unità di misura tempo-orario utilizzata per il salario contrattato. È come se, attraverso l’apparato tecnologico appositamente progettato, venisse creato del tempo in più donato all’azienda che ha introdotto, a questo fine, l’apparecchiatura artificiale: tempo non riconosciuto in alcun modo al lavoratore. Per riprendersi quel tempo il sindacato della riduzione d’orario, dei ritmi, dei cottimi, non c’è più: bisogna ricostruirlo a partire da una formazione estesa dei lavoratori, e da una ricostruita e autonoma conoscenza dei cicli e dei processi di organizzazione del lavoro.

Il mondo del lavoro deve saper criticare un salto della tecnologia con cui ha a che fare, posta sotto le ali della tecnocrazia al riparo del falso mito della neutralità della scienza, finalizzata sostanzialmente al controllo e all’esclusione, senza che la democrazia in tutte le sue articolazioni sia dotata di armi per contrastarla, come dimostra la galoppante avanzata dell’Intelligenza Artificiale.

 

 
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