Roma città Libera - di Pietro Basile

Racconto della ventinovesima Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti di mafia.

Erano appena le sette del mattino di un 21 marzo che si annunciava come un primo giorno di primavera con tutti i sacri crismi: terso e mite fin dalle prime luci del giorno. Nonostante l’ora, tuttavia, a Roma c’era chi si agitava operoso già da un pezzo. Non solo i tanti attivisti capitolini, da mesi impegnati a vincere la scommessa di riempire di passione il Circo Massimo. Tra questi infatti si contavano numerosi anche i volontari milanesi, che avevano anticipato di qualche giorno il viaggio verso la destinazione romana della ventinovesima Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti di mafia.

Loro erano lì per aiutare ad accogliere e indirizzare i manifestanti provenienti da tutta la penisola, dare una mano ad allestire i tanti seminari a corredo della giornata, accompagnare e assistere i familiari delle vittime e, insomma, alla fine erano lì per vincerla quella scommessa: 100mila anime hanno sfilato tra piazza dell’Esquilino e il Circo Massimo, dimostrando che, in questo tempo al quale rimproveriamo cinismo, passività e disimpegno, la passione e l’impegno civile battono ancora un colpo. E’ stato così il 25 Aprile di un anno fa, ed è accaduto con i 70mila del 21 marzo milanese della scorsa edizione.

Parlando di quella che si è appena tenuta, conviene soffermarsi sul titolo scelto, “Roma Città Libera”, che parafrasa il capolavoro del neorealismo “Roma Città Aperta” di Roberto Rossellini. In questo intreccio tra memoria dell’antifascismo e ricordo di chi ha dato la vita per contrastare la criminalità organizzata, si racchiude il senso del percorso e della giornata che ne è l'esito: siamo ancora sottoposti al giogo delle mafie, la Liberazione che 80 anni fa finalmente respingeva i nazifascisti dalla Capitale diventa oggi il grido di quelle 100mila voci che chiedono di liberare il Paese dalla prevaricazione mafiosa. E’ un invito a resistere e lottare, a schierarsi e scegliere. A vedere, a sentire, a parlare.

Ai diritti, dunque, ammicca questa stessa scelta. Scelta che identifica anche la vittima illustre dei diritti quando questi vengono negati: quella democrazia che ha bisogno di contrasto alle disuguaglianze, di giustizia sociale e di una vigile società civile per poter finalmente compiere la propria maturazione e isolare, ridimensionare e, perché no, sconfiggere mafie e corruzione.

Milano ha contribuito, come la Lombardia, con una folta rappresentanza perché, seppure a fatica, si sta facendo largo la consapevolezza (tardiva presso i più) che il nord non è terra di episodiche presenze mafiose. Le mafie hanno risalito la penisola molto tempo fa e godono di un’espansione che è diventata capillare perché hanno scelto di non fare più né rumore né sangue. Non fanno notizia, perché siamo assuefatti ad una fruizione cronachistica e titolistica dell’informazione, che non sembra far percepire come un pericolo le false fatturazioni, i fallimenti pilotati, le frodi fiscali, il riciclaggio del denaro sporco. Ecco perché il rito laico della lettura dei nomi, oramai ben più mille, continua ad assumere un significato profondo anche per chi vive qui, nella bolla di illusione del nord.

Il 21 marzo ha nuovamente ricordato le donne, gli uomini, i bambini che dopo essere stati strappati alla propria esistenza rischiavano di subire anche l’ingiustizia di essere rimossi dalla nostra memoria. Ricordare, d’altronde, è operazione necessaria in un Paese in cui il passato fatica a diventare storia, disperdendosi in memorie non condivise, utilizzate per modificare i fatti al servizio di alterazioni strumentali agli scopi delle consorterie, delle clientele, del crimine organizzato.

Leggere quel lungo elenco è un contributo al cristallizzarsi di una parte del nostro passato che può finalmente ambire ad essere patrimonio collettivo. Il 21 marzo, dunque, ci restituisce quelle storie, ci permette di donare loro una vita nuova rendendole anche nostre, ci rammenta quanto è stato, ci ammonisce su quanto è ancora, e ci chiarisce cosa non vogliamo più che sia.

 

 
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