Liste d’attesa, un affare per i privati - di Lorella Brusa

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Recentemente, negli Usa, JP Morgan, Buffet e Amazon hanno lanciato una newco per il welfare sanitario aziendale, e da diverso tempo Confindustria guarda con interesse al settore, che vale in Italia l’11% del Pil. Un buon affare investire in sanità, considerati l’invecchiamento della popolazione, l’aumento delle patologie croniche e i tagli draconiani al servizio pubblico. Meno posti letto, meno risorse su farmaceutica, strumentazioni, manutenzione delle strutture. Meno personale: oltre 45mila unità perse dal 2009 al 2016, di cui quasi 8.300 medici e 12.000 infermieri, oltre a tecnici di assistenza e riabilitazione. Il personale in servizio ha un’età media superiore ai 50 anni. E’ a rischio la stessa erogazione dei Livelli essenziali di assistenza sul territorio nazionale.

Non stupisce, quindi, che una parte consistente dei cittadini sborsi di tasca propria 37 miliardi di euro per aggirare le liste d’attesa, per prestazioni ospedaliere ed extra ospedaliere, per ticket e superticket. E’ quindi di straordinaria attualità l’iniziativa della Fp Cgil e della Fondazione Luoghi Comuni sulle liste d’attesa e i costi delle prestazioni sanitarie nei Sistemi sanitari regionali: un’indagine su 26 milioni di utenti in Lombardia, Veneto, Lazio e Campania (il 44% della popolazione italiana).

Il primo report del Consorzio per la ricerca economica applicata in sanità indica nel rapporto tra i tempi di attesa e i costi per le prestazioni nelle diverse strutture (pubbliche, private convenzionate, intramoenia e privato non accreditato) una chiave di lettura importante. Il cittadino che ha bisogno di una visita specialistica o di un esame strumentale deve affrontare attese molto lunghe (salvo che per le urgenze) nel servizio pubblico: 88 giorni per una visita oculistica, 55 per un controllo ortopedico, 96 per una colonoscopia. Tempi dilatatisi negli ultimi anni, il segno di un Ssn in grande difficoltà, che arretra progressivamente a favore del sistema privato.

Il grande problema evidenziato dalla ricerca riguarda le scelte, quasi obbligate, del cittadino. I costi relativi al ticket spesso non sono distanti da quelli per le stesse prestazioni effettuate in regime di intramoenia e nelle strutture private non convenzionate, con tempi di attesa di pochi giorni. Una competizione impari, visto il progressivo definanziamento del servizio pubblico e i minori vincoli (a partire dai rapporti di lavoro del personale) di cui gode il privato.

Il report segnala che “i tempi di attesa (...) rischiano di risultare disallineati con le aspettative della popolazione e, insieme, le compartecipazioni ai costi rischiano di essere disallineate con il valore di mercato delle prestazioni, esitando in una grave inefficienza del Ssn, che è il driver di posizionamento competitivo delle strutture private”.

Oltre 13 milioni di persone rinunciano alle cure soprattutto per motivi economici, in misura maggiore al sud e nelle isole dove i redditi sono più bassi e dove, a causa dei piani di rientro a cui sono sottoposte alcune regioni, la compartecipazione è più alta e l’offerta pubblica è limitata. Ciò nonostante, nel contesto internazionale, l’Italia, a fronte di una spesa tra le più basse, è ai primi posti per la salute dei suoi cittadini. Si sta creando però un profondo divario territoriale: la speranza di vita in buona salute in Calabria è di 50 anni, a Bolzano di 70. Una disuguaglianza intollerabile, legata al reddito, all’istruzione, all’organizzazione dei servizi sanitari, all’accesso alle cure e alla prevenzione, al genere.

Fatta salva la necessaria riflessione sulla centralità del ruolo del medico di famiglia per quanto attiene l’appropriatezza delle prestazioni ed il governo del percorso del paziente, il tema centrale sta nella sostenibilità del sistema pubblico. Per dirla con Noam Chomsky, “questa è la strategia standard per privatizzare: togli i fondi, ti assicuri che le cose non funzionino, la gente si arrabbia e tu consegni al capitale privato”.

Come sfuggire a quella che sembra una scelta obbligata? Tornando ad investire in salute. Assicurando i necessari finanziamenti al Ssn, attuando un piano straordinario di investimenti in edilizia, tecnologie sanitarie e in assunzioni di nuovo personale. Riordinando il sistema di norme della sanità integrativa, per evitare commistioni e sovrapposizioni. Ripensando un servizio adeguato ai bisogni di salute di una società in trasformazione. Per continuare questo percorso, iniziato 40 anni fa con l’istituzione del Ssn, serve la consapevolezza e la mobilitazione di tutti. A partire da noi, la Cgil, dalle categorie di attivi e pensionati, dai luoghi di lavoro, per difendere un patrimonio collettivo di cui dobbiamo aver cura, una grande conquista sociale che non possiamo permetterci di perdere.

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