Una riforma fiscale regressiva - di Alfonso Gianni

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L’incontro del 29 novembre fra sindacati e governo in materia di fisco è andato proprio male, se lo stesso segretario della Uil Bombardieri evoca nella sua intervista a ‘il manifesto’ del 1° dicembre l’eventualità di uno sciopero generale.

L’accordo politico sulla revisione dell’Irpef e dell’Irap tra i partiti della maggioranza non piace a nessuno tranne che a quelli che l’hanno firmato. Sono piovute critiche anche da parte di Bankitalia come della Confindustria. In particolare la prima ha osservato che, se si voleva migliorare il reddito dei lavoratori dipendenti, si era scelta la strada sbagliata, quella di un intervento orizzontale sull’Irpef che finiva per favorire i redditi medio-alti.

In effetti, tra le proposte preparate dal team di esperti messo in piedi dal governo, è stata scelta la soluzione peggiore, che dovrà finire in un emendamento governativo alla legge di bilancio ora al Senato. Si tratta di una manovra regressiva peggiore di quanto ci si potesse aspettare, vista la discussione nelle commissioni parlamentari competenti di Camera e Senato.

Degli otto miliardi previsti, sette verrebbero utilizzati sull’Irpef e uno sull’Irap. L’Irpef verrebbe ridisegnata lungo quattro aliquote rispetto alle cinque attuali, con l’intenzione di portarle poi a tre, in contrasto con il criterio della progressività contenuto in Costituzione. Si ricorderà che la riforma fiscale entrata in vigore nel 1974 prevedeva un sistema tributario di 32 aliquote dal 10% al 72%. Da allora si è snodato un lungo ma implacabile percorso, con innovazioni legislative regressive, che hanno sorretto la lotta di classe condotta dalle classi dominanti lungo l’ultimo quarantennio e che ora troverebbe così la sua nuova epifania.

Le quattro aliquote sarebbero del 23%, del 25%, del 35% e del 43%. Per venticinque milioni di lavoratori e pensionati non c’è nulla o miglioramenti minimi. Infatti per la no-tax area si parla di piccole e imprecisate modifiche; la fascia di reddito fino a 15mila euro resta al 23%; quella tra i 15 e i 28mila euro scende dal 27% al 25%; la successiva dai 28mila ai 50mila euro (non più 55mila) diminuisce di tre punti dal 38% al 35%; oltre quella cifra, avendo cancellato l’aliquota del 41%, si applicherebbe quella del 43%.

L’effetto di questo ridisegno di scaglioni e aliquote favorisce i redditi medi ed anche quelli con un alto imponibile. Basta guardare al terzo scaglione per rendersene conto. La riduzione di tre punti dell’aliquota favorisce proporzionalmente di più coloro che si trovano nella parte alta dello scaglione, ovvero vicino ai 50mila euro, che non quelli che stanno vicini ai 28mila, poiché per questi ultimi la riduzione agirebbe solo su una componente minimale del loro reddito che verrebbe per il restante investito da una riduzione inferiore dell’aliquota.

Non lasciamoci ingannare dal fatto che tra 50 e 55mila l’aliquota sale dal 38 al 43%, dal momento che i contribuenti che si trovano in quel segmento di reddito riescono a beneficiare dei cinque punti di aliquota tagliati nei due scaglioni precedenti e più che compensare l’incremento sul pezzetto tra 50 e 55mila euro. Nel contempo l’aliquota del 43% rimane il tetto del sistema tributario, molto lontano da quel 72% di quaranta anni fa, e lascerebbe indifferenti gli strati più ricchi della popolazione.

Altro che riduzione della pressione fiscale sul lavoro dipendente e sui pensionati, soprattutto quelli con gli assegni più bassi. Alla faccia della recente elaborazione di Openpolis su dati Ocse, che mostra come i salari italiani siano gli unici nel quadro europeo ad essere diminuiti (del 2,9%) dal 1990 ad oggi. Ma la scelta e l’obiettivo erano altri, cioè quelli di venire incontro ai mitici ceti medi. Lo si vede anche dall’intervento sull’Irap cui è destinato un miliardo degli otto complessivi già insufficienti.

Come è noto l’Irap svolge un ruolo fondamentale nel finanziamento del sistema sanitario nazionale, ma si è scelto irresponsabilmente il momento meno indicato di fare ciò che è pur sempre una cosa sbagliata. Un contentino alla Lega, dopo il braccio di ferro sulle misure anti-Covid? Sarà, sta di fatto che l’eliminazione dell’Irap per ditte individuali si aggiunge ai diversi tagli che hanno più che dimezzato il gettito fiscale di questa imposta dal 2,7% del Pil nel 2007 all’1,2% nel 2020.

La partita non è chiusa, ma c’è poco da sperare in questo Parlamento la cui composizione è frutto delle scelte dei vertici dei partiti. Spetta al sindacato e alle lotte popolari riaprirla nel verso giusto.

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