Ai collaboratori sportivi la medaglia della precarietà - di Frida Nacinovich

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Lo sport italiano non può fare a meno di loro. Non stiamo parlando dei campioni affermati, quelli che trovi sulle prime pagine dei giornali, con stipendi da capogiro e una vita da rotocalco. Loro, i collaboratori sportivi, sono il motore degli sport di base, quello che inizi a fare anche prima delle scuole elementari, e che magari continui a praticare per una vita. Si occupano di tutto, dalle iscrizioni a piscine e palestre al tesseramento alle scuole calcio, passando per un arcobaleno di mestieri che vanno dal personal trainer all’insegnante di nuoto, dalla maestra di danza fino al responsabile del magazzino degli attrezzi.

Sono usciti dall’anonimato durante la pandemia, quando il blocco delle attività sportive ha fatto conoscere la realtà di un macrocosmo di donne e uomini confinati come tutti a casa, ma senza alcun ammortizzatore sociale. “Il secondo governo Conte ci aveva messo una pezza, inserendoci fra i beneficiari dei ‘bonus’ distribuiti a chi non poteva né lavorare in presenza né fare smart working”, racconta Antonella Barranca, milanese, che è stata per cinque anni addetta alla segreteria di alcune società sportive. “Questo fino a dicembre, poi stufa della precarietà ho fatto il salto di qualità - dice con un sorriso agrodolce - ho trovato impiego in un call center”.

Non si abbatte Antonella, abituata a inviare curriculum a destra e a manca per coprire i buchi fra un lavoro precario e l’altro. “In quel mondo la precarietà è uno degli sport estremi”. Ma andiamo con ordine. “Non pensare che sia una sportiva - precisa - sono pigra. Sono stata catapultata quasi per caso in un universo per me alieno, che ha regole tutte sue. Prima lavoravo per l’‘Eco della Stampa’, curavo le rassegne. Quando decisero di farmi lavorare la notte, fui costretta a lasciare”.

Nel 2014 Barranca si ritrova così in mobilità. “Amici e compagni mi segnalarono una piccola società sportiva che cercava una segretaria, 20 ore settimanali per 500 euro al mese. Facendo qualche altro lavoretto riuscivo ad avere quasi uno stipendio normale”. C’è voluta la pandemia per portare alla luce le storture di un mondo che ogni genitore conosce, iscrivendo i figli a questa o quella disciplina con cui ogni sportivo dilettante si interfaccia. “Non siamo considerati dei lavoratori, curioso ma è così. Il nostro contratto non prevede il versamento di contributi, il nostro reddito non è ritenuto reddito da lavoro, non abbiamo diritto né alla malattia né alle ferie. Quando il centro sportivo si ferma, il collaboratore resta a casa, senza paga”.

Barranca non ha dubbi: “Sotto di noi c’è solo il lavoro nero. Senza parlare del sommerso che trovi nel settore”. Poche ore al giorno, pochissimi soldi e un’accentuata flessibilità. “Dopo un paio di stagioni nella piccola realtà calcistica, venni a sapere che una società sportiva più grossa e ricca cercava collaboratori. Mi sono trovata a svolgere un lavoro subordinato a tutti gli effetti, con orario prestabilito, turni scritti, e uno sportello da gestire. Nessuna autonomia, precise mansioni da svolgere, iscrizioni ai corsi di nuoto, calcio, ecc. Tutto per 800 euro al mese, troppo pochi per pagarmi i contributi”. Traduzione: i collaboratori sportivi sono lavoratori dipendenti che non hanno i diritti di chi lavora alle dipendenze.

“La riforma Spadafora ha provato a garantirci almeno la parte contributiva - spiega la sindacalista del Nidil Cgil - ma ci sono tante scappatoie. Istruttori e personal trainer quasi sempre aprono la partita Iva, e per arrivare a uno stipendio pieno hanno più impieghi”. Se la precarietà fosse una disciplina olimpica, i collaboratori sportivi sarebbero in lizza per una medaglia. Barranca fa un passo indietro: “Mi avevano chiesto di lavorare dalle 3 di pomeriggio alle 8 di sera, avevano introdotto anche il turno del sabato mattina. Orari incompatibili con la mia vita privata, le piccole soddisfazioni cui anche una precaria ha diritto, come per me l’attività politica”.

C’è da aggiungere che una parte delle società sportive più che fare promozione sociale fa affari, operando sette giorni su sette. “Ho iniziato in una piccola associazione, che seguiva il peculiare calendario scolastico. Non esistono ferie sulla carta, ci sono di fatto. Io ad esempio finivo l’anno il 31 di luglio e riprendevo a settembre. In definitiva ero un’impiegata non solo senza la tredicesima, ma nemmeno la dodicesima. Undici mensilità”.

L’ultima esperienza nel settore è stata in una società di padel, nuovo sport che sta andando per la maggiore. Società di padel sono spuntate come funghi. “Un’associazione sportiva dell’hinterland milanese mi ha assunta dopo un veloce colloquio. Otto ore al giorno per 1.200 euro al mese. Ma c’erano toppe cose che non mi piacevano, me ne sono andata quasi subito”. Il 2022 è arrivato con un nuovo impiego, al solito precario, trovato grazie al dinamismo di Antonella Barranca. Oggi, addetta al call center di un ateneo, si descrive ironicamente come “il sogno realizzato del pacchetto Treu”. Datato 1996.

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