Ai confini del diritto. No al Cpr in Toscana - di Senka Majda

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Si è riacceso il dibattito sull’apertura in Toscana di un centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr), in cui vengono reclusi gli immigrati irregolari che attendono l’esecuzione del provvedimento di espulsione emesso dal questore.

I Cpr nascono nel 1998 con la legge Turco-Napolitano, denominati inizialmente Centri di permanenza temporanea, poi modificati in Cie (Centri di identificazione ed espulsione) dalla legge Bossi-Fini, e infine definiti Cpr dalla legge Minniti-Orlando del 2017. Rappresentano centri di detenzione amministrativa in cui gli stranieri vengono trattenuti non per aver commesso un reato ma soltanto un illecito amministrativo, come la mancanza del possesso di un titolo di soggiorno. Una misura detentiva che incide profondamente sulla libertà personale, esattamente come la detenzione ordinaria, se non peggio. Anche la Consulta, nella sentenza 105 del 2001, rileva che tale detenzione non è conforme all’art. 13 della Costituzione.

Ad oggi i Cpr presenti a livello nazionale sono una decina, dislocati in varie regioni. A Firenze il prefetto Valente ha proposto ultimamente l’istituzione di un ulteriore Cpr, il primo in Toscana, al fine di prevenire e contenere la criminalità. Il prefetto sostiene che il 50% dei reati è commesso da stranieri illegali. La proposta ha convinto anche il presidente regionale Giani, così come tanti sindaci, pronti ad accogliere l’apertura del centro come una soluzione efficace al problema della sicurezza delle città.

Sono affermazioni pericolose, che associano la condizione di irregolarità dello straniero alla sua presunta pericolosità sociale. Ma la principale causa di irregolarità degli immigrati è la normativa vigente, un ammasso di disposizioni escludenti e inadeguate ai cambiamenti sociali. La legge Bossi-Fini infatti non prevede canali di accesso legali per chi vuole venire in Italia in cerca di lavoro, e anche il rinnovo del permesso di soggiorno è sempre condizionato dalla stabilità lavorativa. Neanche chi presenta domanda di protezione internazionale è salvo perché potrebbe essere trattenuto nei Cpr in attesa di trasferimento nei centri di accoglienza, come prevede il d.l. 130/2020. Va considerato che ben il 40% delle domande di protezione internazionale viene rigettato dalle Commissioni territoriali competenti, con il rischio che i richiedenti finiscano per perdere il diritto di soggiorno in Italia e di essere reclusi nei Cpr.

Non convincono nemmeno le rassicurazioni dei nostri amministratori, secondo cui si tratterebbe di un piccolo centro di 50 posti in cui verranno garantiti i diritti e le condizioni di vita dignitose. Queste affermazioni crollano davanti ai risultati emersi da vari rapporti-denunce sulle condizioni dei Cpr italiani. Il Rapporto 2021 della Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili (Cild) denuncia a gran voce le gravi violazioni dei diritti delle persone recluse nei centri, tanto da definirli “buchi neri” del diritto. Si registrano frequenti episodi di autolesionismo, depressione e forte malessere, tanto da arrivare anche al suicidio, sei in meno di due anni, tutti di giovanissimi.

Un altro aspetto sconcertante è la presenza di minori rinchiusi “contro ogni legge” in attesa che venga accertata la loro età effettiva. Forti carenze si riscontrano nelle condizioni delle strutture e nei servizi erogati: pessime condizioni igieniche, presenza ridotta dei medici, assistenti sociali, psicologi e mediatori linguistici. Sono invece ampiamente distribuiti psicofarmaci e ansiolitici.

Inoltre dal Rapporto del Cild si evince che l’apertura dei Cpr ha un costo altissimo per i contribuenti: una spesa media giornaliera di 40mila euro per una presenza media di 400 persone. Nel contempo è un affare per i gestori, scelti attraverso gare d’appalto basate sull’offerta economicamente più vantaggiosa. Un vero e proprio business milionario che ha attirato l’attenzione di multinazionali che gestiscono le strutture detentive in Europa, come Ors Italia e Engie Italia, colossi miliardari.

Allora perché tanta insistenza nella creazione di questi non-luoghi, dove le persone si annullano tramite la privazione dei loro diritti basilari e delle loro libertà accordata dallo Stato? L’unica soluzione condivisibile e adottabile contro la criminalità è la sicurezza dei diritti è il loro allargamento, non la compressione che le forze politiche stanno attuando con azioni restrittive e criminalizzanti verso le persone.

Ma il punto sta proprio qui, nella penalizzazione degli ultimi, dei più fragili e quindi dell’“altro” rappresentato dai migranti. La loro riduzione a non-persone, come dice Wacquant, è una tendenza adottata per far fronte alla crisi e quindi al rinsecchimento dello stato sociale. La coperta dei diritti sociali è troppo corta e allora si ergono muri, si creano non-luoghi, come i Cpr appunto, in cui si annulla lo stato di diritto.

È intollerabile che ciò possa accadere anche in Toscana, dove per primi si abolì la pena di morte che, come scrisse Pietro Leopoldo di Lorena, è un atto “conveniente solo ai popoli barbari”.

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