Walter Massa: “L’Arci è arcobaleno anche nel dna” - di Frida Nacinovich

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Gli oltre 800mila soci dell’Arci hanno un nuovo presidente, Walter Massa, eletto in un congresso nazionale che si è svolto nel mezzo di una guerra terribile in Europa, e in una situazione non certo facile per le classi popolari che da sempre costituiscono la colonna vertebrale dei quattromila circoli diffusi in ogni angolo della penisola. In anni caratterizzati dalla crisi pandemica, ambientale ed economica, con la ciliegina avvelenata del conflitto russo-ucraino, la resistenza dell’Arci si chiama mutualismo, per combattere la solitudine e la paura che ne deriva, riscoprendo uno dei valori cardine delle case del popolo e delle società di mutuo soccorso legate all’associazione.

 

La bandiera dell’Arci ha i colori dell’arcobaleno, non è certo un caso. Quali sono i sentimenti dei soci di fronte a una guerra terribile, con lutti, sofferenze e devastazioni immani, che minaccia di proseguire ancora a lungo?

“I nostri sentimenti sono quelli del paese. La maggioranza degli italiani e delle italiane, ormai è risaputo, era e resta contraria all’invio delle armi. Ma a suo tempo il Parlamento votò il provvedimento, inspiegabilmente perché in questo modo faceva saltare l’ideale connessione che deve esserci fra governati e governanti. È stato un grande errore, perché dallo scoppio della guerra ad oggi l’unica cosa che i governi dei vari paesi europei hanno saputo fare è inviare armamenti. Credo che questo sia il dato più grave della situazione. Questo non significa ovviamente, come del resto spiegano tutti i trattati internazionali, non rispettare la legittima difesa del popolo ucraino, che va sostenuto. Significa invece che le diplomazie internazionali dovrebbero anche occuparsi di altro, non solo delle armi. E l’Unione europea, che era già debole prima, è completamente scomparsa come soggetto in grado di avere una sua linea diplomatica. Così l’Europa, a causa di questa guerra, è oggi completamente frantumata sul piano politico”.

 

Come si può contrastare la vulgata per cui chi chiede il cessate il fuoco e negoziati veri è automaticamente accusato di filo-putinismo?

“Dobbiamo fare i conti con la realtà. Realtà che nel corso di questi mesi di conflitto armato si è palesata in modo sempre più evidente. Il mondo è una cosa complessa, non si può pensare di affrontare i problemi dividendoci tra ultras di una fazione o dell’altra. Chiedere pace non significa non riconoscere, lo ripeto, il diritto degli ucraini a difendersi da un’aggressione militare devastante, che sta continuando a produrre morti. Questo è il dato. Credo sia necessario aprire gli occhi. Quando ci siamo resi conto, forse un po’ in ritardo, di cosa voleva dire l’escalation bellica, abbiamo portato in piazza più di centomila persone. E loro hanno manifestato anche in rappresentanza della maggioranza della popolazione, quella convinta che l’unica risposta non può essere l’invio delle armi. Per noi dell’Arci, che abbiamo una lunga storia di pacifismo di cui siamo orgogliosi, questa resta la questione principale. Da affrontare con un percorso di pace per il quale dobbiamo batterci”.

 

Ci sono state molte mobilitazioni contro la guerra in questi mesi, l’Arci non è mai mancata. Eppure l’opinione pubblica sembra affetta, come osserva anche il Censis, da un fatalismo che sconfina con l’abulia. Un’Italia ripiegata, sofferente ma incapace di reagire adeguatamente a quello che abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi.

“Noi, senza voler riconoscere troppi meriti all’Arci, insieme alla Cgil e alle Acli siamo quelli che hanno creduto subito alla possibilità di dare una speranza alla pace. Avevamo percepito che c’era una necessità, un bisogno di scendere in piazza sui temi della pace. E credendoci più di altri siamo riusciti a mettere insieme centinaia di organizzazioni e a portare in piazza, appunto, quella pancia del paese che per una volta non è una pancia negativa ma positiva. Quella che continua a chiedere pace, perché la guerra si sta rivelando, oltre che devastante per il popolo ucraino, dannosa per la tenuta politica, economica e sociale di tutto il mondo e dell’Europa in particolare. L’Europa è entrata in questa guerra in una posizione già di debolezza e ne è uscita ancor più debole, spaccandosi ulteriormente al suo interno. Ed è stato un peccato, perché avendo una guerra ai propri confini c’erano tutte le condizioni perché l’Unione europea potesse svolgere un ruolo politico importante. Invece siamo al punto in cui le trattative le fanno solo i russi e gli americani, tra l’altro bypassando gli stessi ucraini”.

 

Per non parlare dei curdi, che hanno combattuto il califfato islamico ma ora sono usati come merce di scambio per accontentare il dittatore turco Erdogan, che si è posto come arbitro del conflitto.

“Le degenerazioni sono quelle, perché ovviamente si innescano dei meccanismi di ricatto, soprattutto nella diplomazia internazionale, che portano paesi come Svezia e Finlandia, con una storia di accoglienza e di rispetto dei diritti umani, ad accettare i diktat di Erdogan contro i curdi. Quindi è proprio saltato il tappo, e si è aperto il Vaso di Pandora. Forse bisognerebbe rendersi conto che indietro non possiamo tornare, perché non potremmo restituire nulla a chi con la guerra ha perso tutto. A chi ha visto morire i propri cari, a chi è rimasto sotto le bombe, a chi è rimasto ucciso al fronte. Non potremmo restituire nulla. Ma cominciare a invertire l’ordine delle priorità sarebbe importante in questa fase. Anche se mi sembra difficile, vedendo i comportamenti dell’attuale classe dirigente e quello che sta accadendo in Europa”.

 

Quando inizia l’anno, rinnovare la tessera dell’Arci nel proprio circolo è un gesto di resistenza civile. Ce la farete ad affrontare, dopo la pandemia, anche un governo piuttosto lontano dai vostri principi costituitivi?

“Se lo posso dire con una battuta, e lo è fino a un certo punto, l’ultima delle nostre preoccupazioni è il tipo di governo che abbiamo davanti. Piuttosto è il contrario, questo è un governo che ci dà molti stimoli per fare ancora di più. E credo lo faremo, io sono ottimista. L’ho visto in questo lunghissimo percorso congressuale che abbiamo affrontato, l’Arci non è uscita peggio da questa pandemia, e questo mi sembra un dato molto confortante. Basta pensare che durante la pandemia, con i circoli chiusi per un anno e mezzo, comunque 400mila persone hanno deciso ugualmente di iscriversi all’Arci. Per noi è stato un risultato molto importante, ci ha dato coraggio. Ed ora abbiamo due grandi obiettivi: dobbiamo aumentare il lavoro, che già svolgiamo, di cura e di prossimità sul territorio, cercando di riuscire ad avere almeno un circolo Arci in ogni comune italiano. E poi dobbiamo lavorare, insieme ad altri, su un vero e proprio progetto politico per la sinistra. Una sinistra che torni ad essere credibile e ad occuparsi dei territori. Che parta dagli ultimi, da quelli che hanno più bisogno, e che insieme a loro ricostruisca un percorso. Senza trasformarci in esercito della salvezza, non lo siamo mai stati. Ma costruendo emancipazione ed autodeterminazione”.

 

Le case del popolo toscane stanno aiutando gli operai della ex Gkn, fin dall’inizio della loro mobilitazione.

“È stata una grandissima prova di quello che possiamo fare in modo forte, imponente, sul territorio. Ad esempio al congresso c’è stato un ordine del giorno, approvato all’unanimità, che prevede di occuparci di tutti quelli che nei prossimi mesi perderanno il reddito di cittadinanza. Per noi quella è una sfida. Abbiamo una rete di presidio del territorio molto diffusa, abbiamo dei luoghi fisici, abbiamo delle compagne e dei compagni straordinari che hanno voglia di fare. Di fare anche politica, con le nostre peculiari modalità. E credo che dobbiamo dare a tutti l’occasione di rendersi utili per la propria comunità”.

 

Da politica e istituzioni tante belle parole, ma pochi fatti…

“Con la pandemia ci siamo resi conto meglio dei limiti della riforma del terzo settore. Perché c’è stato il tentativo, che ormai andava avanti da anni e con la pandemia è diventato assai evidente, di equipararci ai pubblici esercizi. Dato che non avevamo la partita Iva, contavamo meno di tutti gli altri quando si trattava di ottenere dei ristori. Allora abbiamo capito che anche quel gap va recuperato. Se dobbiamo essere uno strumento di welfare di prossimità che lavora insieme allo Stato, lo Stato deve evitare di massacrarci con la burocrazia e di impedire la piena attuazione dell’articolo 18 della Costituzione, che sancisce il diritto ad associarsi”.

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