A dieci anni dalla strage del Rana Plaza - di Leopoldo Tartaglia

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Il 24 aprile è corso il decennale della strage di Dacca, forse la più grave strage sul lavoro del ventunesimo secolo, in cui persero la vita 1.138 lavoratori tessili per il crollo del Rana Plaza, un edificio che ospitava cinque fabbriche tessili. Quelle operaie e quegli operai – oltre ai morti, più di duemila feriti - lavoravano per il sistema globale della Fast Fashion, un’interminabile lista di marchi famosi si riforniva alla loro tessitura, da Benetton a Zara, da Walmart a Carrefour.

Fu un disastro annunciato. Solo un giorno prima erano apparse crepe strutturali nell’edificio. Le banche e i negozi dei piani inferiori avevano chiuso. Invece continuò la produzione delle fabbriche tessili. I proprietari non vollero fermarsi. Operaie e operai furono costretti a presentarsi al lavoro. Alle nove meno un quarto del mattino il palazzo crollò. Una carneficina.

Di fronte all’indignazione e all’attenzione mondiale suscitata da quell’immane tragedia, si avviò una lunga e determinata campagna per responsabilizzare i grandi marchi che erano i veri committenti e beneficiari della filiera, e avrebbero dovuto garantire salute e sicurezza di lavoratrici e lavoratori di quei laboratori. Grazie all’impegno di sindacati nazionali e delle Global Unions, di campagne come la “Clean Clothes Campaign” (in Italia la rete “Abiti puliti”) e l’intervento dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), trainato dalla componente sindacale al suo interno, furono adottati programmi vincolanti sulla salute e sicurezza, e chiusi accordi per il risarcimento delle vittime e dei loro parenti.

Anche se bassi salari e negazione delle più elementari libertà di associazione e rappresentanza sindacale restano piaghe ancora aperte, la sicurezza in Bangladesh è migliorata significativamente grazie all’ “Accordo internazionale per la salute e la sicurezza nell’industria tessile e dell’abbigliamento” siglato tra governi, sindacati e multinazionali nei mesi successivi alla strage.

L’Accordo ha consentito di mettere in sicurezza, con interventi di ristrutturazione, oltre 1.600 fabbriche e 2 milioni e mezzo di lavoratori e lavoratrici. Ed ha avuto successo perché è legalmente applicabile, dà potere ai sindacati e ha al centro ispezioni indipendenti, formazione dei lavoratori e un meccanismo di reclamo.

Nel 2013 fu anche stipulato il “Rana Plaza Arrangement” per il risarcimento delle famiglie delle vittime e dei lavoratori rimasti inabili, con risarcimenti per complessivi 30 milioni di dollari. Ci sono voluti più di due anni per convincere i marchi più riluttanti, tra i quali Benetton, a versare un importo adeguato nel fondo di risarcimento. Così come il sindacato italiano, e la Cgil in particolare, riuscirono a coinvolgere il governo, tramite il punto di contatto italiano sulle linee guida Ocse per le multinazionali, ad aderire e sostenere il fondo.

Il 20 aprile scorso Cgil Cisl Uil e la campagna Abiti Puliti hanno voluto fare il punto della situazione con il convegno “Mai più Rana Plaza: fabbriche sicure ovunque nel mondo, dal Bangladesh all’Italia”, a cui hanno partecipato, tra gli altri, Repon Chowdhury, segretario generale del Congresso del sindacato libero del Bangladesh (Bftuc), Deborah Lucchetti (Abiti Puliti), Gianni Rosas, direttore ufficio Oil di Roma, e la segretaria confederale Cgil, Francesca Re David.

È stato ricordato che l’attuale mandato biennale dell’Accordo internazionale scadrà nell’ottobre 2023, e dovrà essere sostituito da un nuovo accordo con garanzie almeno altrettanto forti, e con l’impegno di tutti i 192 marchi che lo hanno firmato. Mentre resta da portare ad aderire quella che è stata ribattezzata la “sporca dozzina": Amazon, Asda, Columbia Sportswear, Decathlon, Ikea, JC Penney, Kontoor Brands (Wrangler, Lee e Rock & Republic), Levi’s, Target, Tom Tailor, Urbn (Urban Outfitters, Anthropologie, Free People) e Walmart, marchi e multinazionali che si sono rifiutate di assumersi le loro responsabilità e l’impegno a garantire i diritti in tutta la filiera della subfornitura.

Restano poi aperte le lotte per un equo salario - i sindacati del Bangladesh chiedono che l’attuale salario minimo sia triplicato -, per il riconoscimento delle libertà sindacali, e per l’istituzione in Bangladesh, e a livello globale, di un sistema di risarcimento in caso di infortuni, attivabile con certezza da sopravvissuti e famiglie delle eventuali vittime.

Così come va vinta la battaglia per la piena efficacia ovunque e verso tutte le aziende – a partire dalle multinazionali – delle norme internazionali sul lavoro sancite dall’Oil, superando tutte le forme private di certificazione della “responsabilità sociale d’impresa”. Spesso, in Bangladesh, come in Pakistan, come altrove, grandi tragedie sul lavoro occorrono in fabbriche e laboratori che hanno ottenuto certificazioni da aziende specializzate (tra queste l’italiana Rina), o network promossi da associazioni e imprese con il chiaro intento farsi una reputazione sociale e ambientale, cercando di evitare l’ “ingombro” del sindacato e delle norme internazionali.

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