Gli effetti collaterali della guerra: tornare alla politica - di Giancarlo Straini

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La guerra in Ucraina è indubbiamente una grande tragedia ma, forse, potrebbe collateralmente aiutarci a tornare alla politica sistemica, grazie alla nuova attenzione per la geopolitica imposta dagli eventi.

Il termine “politica” nella lingua italiana è estremamente polisemico; in inglese si può tradurre con ‘polity’ (il sistema politico, la strategia, l’identità, la rappresentanza); si può tradurre anche con ‘politics’ (le dinamiche politiciste tra i partiti), e con ‘policy’ (le norme per gestire e amministrare, spesso intese come scelta solo tecnica).

Decenni di egemonia neoliberista dimostrano (convincono, impongono) che ‘there is no alternative’ al sistema; arrivano dopo i “magnifici trent’anni”, il periodo senza precedenti nella storia, tra la fine della Seconda guerra mondiale e la stagflazione degli anni ‘70, di riduzione delle disuguaglianze nei paesi industrializzati e di avvio ovunque di movimenti di liberazione.

L’egemonia del pensiero socialista (alla fine dei “trenta gloriosi”) raggiunge il suo culmine ma non riesce a gestire i suoi successi ed entra in crisi. Il pensiero debole e postmoderno diventa l’ideologia del riflusso; la centralità del lavoro è sostituita dalla centralità del consumo immediato, senza passato né futuro; i soggetti del cambiamento non sono più i lavoratori ma una generica umanità, che non ha bisogno di una propria ideologia (tanto meno di un partito) ma di astratti principi etici (e di comitati elettorali); i movimenti si frammentano in monotematiche (‘single issue’), si chiudono nelle rispettive bolle o sono assorbiti nel mainstream.

L’oscuramento della centralità del lavoro avviene in una spirale in cui la classe lavoratrice perde fiducia nella propria capacità di incidere sulla struttura della società (anche il lessico passa da “protagonismo”, “lotta” a “fragilità”, “cura”). La classe lavoratrice non è più protagonista anche perché chi dovrebbe rappresentarla la considera un residuato storico che verrà presto sostituito dall’automazione, o l’espressione di un “produttivismo” contro natura, o semplicemente si adatta acriticamente a un mercato del lavoro sempre più segmentato ed “etnicizzato”.

La “seconda repubblica” si fonda proprio sulla svalorizzazione della politica (sistemica) e dello Stato-nazione, a cui è contrapposta la società civile, i movimenti “dal basso”, il principio di sussidiarietà che privatizza il welfare universalistico anche con il “terzo” settore. Non a caso si afferma nei primi anni ‘90 con il dilagare della seconda globalizzazione, che sposta in alto il luogo delle decisioni, svuotando le istituzioni nazionali democratiche, quelle che “garantiscono” (lottando) i diritti della cittadinanza, e che provoca reazioni nazional-populiste in basso, con localismi e corporativismi.

Anche chi non aderisce al conformismo dominante è condizionato dagli schemi cognitivi postmodernisti (semplificazione, immediatezza, emozione), “isolando” la spiegazione della guerra in Ucraina sull’aspetto della violazione russa del diritto internazionale, o sull’Euromaidan, o sulla bolletta del gas. Tra le “semplificazioni”, riscuotono molto successo gli appelli alla pace del papa; in realtà la geopolitica del Vaticano è molto, molto più articolata.

La chiesa cattolica aspira ovviamente a rafforzare il suo prestigio morale proponendosi come mediatore, nonostante sia anche parte in causa. Bergoglio fa appelli per la pace e nei territori i cappellani benedicono le (diverse) armi, il Catechismo della Chiesa Cattolica ammette la “guerra giusta” (CCC 2309) e la produzione e il commercio di armi purché regolamentati (CCC 2316), perché “gli uomini, in quanto peccatori, sono e saranno sempre sotto la minaccia della guerra fino alla venuta di Cristo”.

Ma la “seconda venuta” (peggio di un treno pendolari) tarda a arrivare, e allora dobbiamo manifestare oggi per la pace, con i pochi strumenti che oggi abbiamo. Però potremmo cogliere l’occasione per fare intanto qualche riflessione, magari evitando i toni apocalittici, perché reagire all’impotenza con la “radicalità” della comunicazione spinge solo a gesti simbolici, e non aiuta a spiegare la oggettiva gravità della situazione (ambientale, politica, ecc.).

Il pianeta non deve essere salvato, “morirà” tra qualche miliardo di anni quando il sole si espanderà in una gigante rossa; molto prima capiterà qualcosa ai suoi abitanti, con vantaggi e svantaggi disuguali, di classe.

Se diciamo che siamo tutti sulla stessa barca/pianeta, diventa stonato rappresentare gli interessi di una “parte”; se diciamo che il mondo è sull’orlo della distruzione nucleare, non è prioritario occuparsi di precariato e sanità; se la guerra è insensata per definizione, se è una follia, non ci resta che pregare per il rinsavimento. La guerra, in realtà, è una scelta “razionale” (anche se spesso basata su calcoli errati), per affermare gli interessi (politici, economici, di status) di alcuni a scapito di altri; ci sono guerre da condannare in toto (come la Prima guerra mondiale) e guerre a cui aderire (la Seconda è stata anche guerra civile antifascista).

L’egemonia politica e ideologica non porta alla scomparsa degli avversari ma alla loro disorganizzazione; idee e azioni avverse sorgono continuamente ma chi è egemone è tale soprattutto in quanto impedisce l’accumulo delle forze avversarie. Per essere egemoni (e accumulare forze) serve un partito, inteso come organizzazione che rappresenta una parte della società, e ancora più serve condividere visione del mondo, analisi concreta della situazione concreta, finalità (speranza in un mondo migliore), strategia, tattiche, alleanze, comunicazione, ricostruzione storica, produzione di narrazioni (fiction, ecc.) a diversi livelli di complessità, legami con la comunità scientifica, ecc., non come frammenti ma in un insieme tendenzialmente coerente.

Non basta affidarsi a una propensione etica (“restiamo umani”), non perché le buone intenzioni lastrichino necessariamente “la strada per l’inferno”, ma perché in un mondo complesso bisogna agire contemporaneamente su piani diversi (talvolta anche contraddittori, talvolta senza soluzione a breve termine) per accumulare forze tramite la politica (sistemica, ‘polity’). Compito faticoso visto lo stato attuale disastroso della politica politicista (della ‘politics’), un percorso lungo e accidentato a cui devono contribuire anche associazioni e sindacati, ferma restando la loro autonomia dai partiti.

I movimenti sono importanti ma senza una rappresentanza di interessi, senza una visione del mondo alternativa capace di unificarli, tendono a essere effimeri e a frammentarsi in monotematiche, anche quando sono imponenti. Il 15 febbraio 2003 la più grande manifestazione mondiale contro la guerra coinvolge 110 milioni di persone in 793 città (in Italia 3 milioni alla manifestazione di Roma); un mese dopo Usa e alleati attaccano l’Iraq a conferma che l’opinione, se non si consolida in una visione del mondo generale (in una ideologia) e nella conquista di istituzioni (le casematte gramsciane), rapidamente si frammenta e viene riassorbita dall’ideologia dominante.

Seppure in crisi, il pensiero socialista ci offre un orizzonte di senso, che però dovrebbe essere declinato, perché non esiste oggi (a mio parere) una visione del mondo minimamente organica capace di prospettare un’alternativa al neoliberismo. Per esempio, si dovrebbe assumere il multilateralismo come prospettiva, ma anche riconoscere per realismo che l’Italia ha ottenuto un po’ di autonomia grazie alla Resistenza, comunque ha perso la guerra; ama narrarsi come “alleata” ma sostanzialmente fa stabilmente parte del’“impero” statunitense.

Connettere i due piani (distantissimi) della prospettiva e della realtà attuale sarebbe il compito della politica (che ancora non c’è). In mezzo ci sono domande tipo: il neoliberismo e la globalizzazione sono in crisi dal 2007? Si sta affermando un nuovo paradigma o siamo in una palude neofeudale che somma un “centro cosmopolita” autoritario a corporazioni e “feudi” locali? Le catene del valore stanno passando dall’off-shoring al re-shoring? Assumono la forma bipolare del friend-shoring o quella multipolare del near-shoring? Come incidono sul (declinante) modello di sviluppo italiano? Sul mercato del lavoro segmentato e etnicizzato? Sulle condizioni di lavoro?

Basta questo parziale e schematico elenco a mostrare che non è certo facile connettere (anche parzialmente) le riflessioni sulla guerra alle condizioni di lavoro, come dovrebbe fare ogni aggregazione che si propone di rappresentare la classe lavoratrice. I rischi sono evidenti: proporre un “fuori l’Italia dalla Nato” può richiamare ai “vecchietti” piacevoli ricordi di gioventù, ma è del tutto ineffettuale (e quindi consolatorio e diseducativo), tanto quanto limitarsi al “mettete dei fiori nei vostri cannoni”. Viceversa, basarsi soltanto sul “realismo” impedisce anche di pensare a un’alternativa, per quanto parziale e provvisoria. La “soluzione” possibile è l’avvio di un percorso, necessariamente collettivo, lungo, incerto, contraddittorio, faticoso.

Oggi nelle sinistre c’è un’esasperata e superficiale ricerca del consenso, basata solo sull’etica (“buonismo”) e sulla gestione delle emozioni; le riflessioni che ci impone la guerra potrebbero invece spingerci a ricostruire un pensiero lungo, una lotta politica sistemica, anche una lotta teorica (ovviamente rispettosa e pluralista, ma esplicita), forse anche a studiare, perché “il socialismo, da quando è diventato una scienza, va trattato come una scienza, cioè va studiato”.

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