Inflazione da profitti, crollo dei salari e guerra: la tempesta perfetta - di Andrea Cagioni

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I temi del crollo dei salari, dell’inflazione e del conflitto distributivo sono ricomparsi a pieno titolo nel dibattito sindacale, anche grazie a recenti pubblicazioni che hanno posto l’attenzione sulla vera posta in gioco: l’inflazione da profitti. Ci riferiamo a “Prezzi alle stelle” (Laterza) di Alessandro Volpi e all’opera collettiva “L’inflazione. Falsi miti e conflitto distributivo” (Punto Rosso).

Elemento di fondo da cui partire è che l’attuale crisi inflazionistica, in buona misura derivante dalle strategie speculative degli oligopoli finanziari e dalle politiche della Bce, sta spingendo a livelli insostenibili le disuguaglianze di reddito e le differenze nella distribuzione di ricchezza.

L’aumento dell’inflazione in Italia, assai superiore alla media europea, ha ridotto al minimo la capacità d’acquisto dei redditi fissi: secondo Istat, in Italia i salari reali, calcolati dunque al netto dell’inflazione, sono diminuiti dell’1,3% nel 2021 e del 7,6% nel 2022.

Mentre una parte delle imprese ha approfittato della spirale inflazionistica degli ultimi due anni conseguendo profitti record, nel suo insieme la classe lavoratrice ha subito una contrazione inedita del potere d’acquisto e dei risparmi. Da fine 2021, quindi prima della guerra in Ucraina, le imprese non hanno trasferito in modo proporzionale l’aumento dei loro costi di produzione sui consumatori. Al contrario, in diversi settori e filiere produttive e distributive (energia, alimentari, banche), le imprese hanno aumentato i prezzi in misura maggiore dei costi di produzione, al fine di incamerare i maggiori margini di profitto possibili. Da qui origina l’inflazione da profitti.

Questi processi sono chiaramente anche la conseguenza dell’assenza di adeguati strumenti di politica economica. In particolare, al crollo del potere d’acquisto della classe lavoratrice concorrono tre fattori: mancanza di meccanismi di indicizzazione salariale analoghi alla scala mobile, profonda crisi del modello di contrattazione e assenza di forme di controllo pubblico dei prezzi di beni e servizi essenziali.

Una conferma davvero clamorosa dell’andamento divergente di profitti e salari è fornita dal recente report del Centro studi di Mediobanca sulle principali 2.150 imprese operanti in Italia. Lo studio documenta nel 2022 un incremento nominale annuo del 30,9% del fatturato. Anche gli indici di redditività segnalano buone prestazioni: +21,9% di margine operativo netto, + 6,9% Roi, +7,7% Roe. A fronte di questi dati così positivi lato capitale, il costo medio unitario della forza lavoro è aumentato del 2% su base annua nel 2022, con una perdita di potere d’acquisto che Mediobanca quantifica al 22%. Un differenziale così ampio, quello tra salari e redditività del capitale, da legittimarne la definizione nei termini di una vera e propria rapina di classe.

Su questo quadro si innesta ora una variabile di massimo impatto. Se l’apertura del secondo fronte di guerra in Medio Oriente sembra profilare la tempesta perfetta sulle condizioni materiali della classe lavoratrice, basti pensare alle dinamiche speculative sul prezzo dell’energia già in atto, il tempo per scongiurare un ulteriore crollo del potere d’acquisto dei salari sta davvero finendo.

L’intelligenza collettiva del sindacato deve mettersi a servizio degli interessi concreti dei lavoratori e delle lavoratrici: solo la costruzione di un’ampia mobilitazione, cambiando i rapporti di forza, può imporre le condizioni minime per rovesciare l’inflazione da profitti. Come mostrano gli esempi recenti delle lotte sul salario negli Usa, in Francia e in Germania, organizzare il conflitto nei luoghi di lavoro è l’unica opzione realistica a disposizione.

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