Riflessioni sul sistema pensionistico e il senso comune - di Antonio Pignatto, Danilo Fassan, Aldo Bastasi

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Pubblichiamo ampi stralci di un documento del “Gruppo Pensionati Critici”.

L’ultimo libro di Sergio Rizzo, “Il Titanic delle pensioni”, elenca una serie impressionante di sprechi, distorsioni, abusi ed esempi di mala politica, ma di fatto, nell'analisi e nelle proposte individuate, afferma ancora una volta che non esistono alternative a questa società, basata sull'individualismo, la competizione, l'accumulazione, la precarizzazione del lavoro e della vita: è insomma in piena sintonia con il senso comune corrente, al quale non accettiamo più di rassegnarci. (…)

Dopo i primi due capitoli, dedicati agli eccessi che i nostri politici non hanno voluto risolvere essendone i principali beneficiari (cumulo di vitalizi e pensioni, contributi figurativi per le cariche politiche elettive...), il libro entra nel cuore del problema: il crac delle pensioni, ovvero l’insostenibilità economica del sistema pensionistico a ripartizione, accusato di essere responsabile anche di tutti i mali descritti poi nelle pagine del testo.

I temi sono gli stessi che i nostri governanti portano avanti da oltre 30 anni, con progressive “riforme” che hanno ottenuto l’unico risultato di affondare non solo le pensioni ma l’intero stato sociale, come ben recita il sottotitolo del libro “Perché lo stato sociale sta affondando”.

(…)

Ma è proprio vero che non ci sono più soldi? Trent’anni di politiche neoliberiste non sono pochi e, se le soluzioni trovate non hanno portato risultati, anzi la situazione continua a peggiorare, forse ci si dovrebbe chiedere se la cura adottata sia effettivamente valida. Veniamo dunque agli aspetti che intendiamo evidenziare.

 

Il sistema a ripartizione

Nel libro, il sistema a ripartizione su base retributiva viene considerato ‘il vero problema … gigantesco … irrisolvibile … il peccato originale’. Ma in un patto di convivenza civile fra generazioni, basato sulla cooperazione e non sull’antagonismo, non dovrebbe esserci alcunché di insensato nel fatto che i lavoratori di oggi paghino le pensioni ai lavoratori che ieri hanno creato le condizioni per il lavoro odierno.

Ogni generazione, ogni persona quando nasce non parte da zero, ma si trova in un mondo già funzionante ad opera di tutte le generazioni precedenti che hanno coltivato quelle terre, costruito strade, ferrovie, case, scuole, ospedali; che hanno prodotto biciclette, automobili, televisori, frigoriferi; operai, ma anche scienziati, filosofi, insegnanti, educatori, giornalisti. Si tratta di una ricchezza materiale disponibile di cui non abbiamo alcuna consapevolezza.

Non è solo questo! Oggi un giovane, prima di entrare nel mondo del lavoro, viene mantenuto dalla famiglia (genitori che lavorano, nonni in pensione) almeno fino a 22-25 anni: le capacità lavorative che può mettere in atto sono indiscutibilmente anche merito della lunga fase di mantenimento precedente, che gli ha permesso di crescere e apprendere. Anche in questo caso, la singola famiglia avrebbe potuto ben poco se non fossero state già disponibili scuole, strade, oltre ai mezzi di trasporto, insegnanti e così via. Questo per dire che nella nostra società siamo totalmente, quanto inconsapevolmente, dipendenti gli uni dagli altri, e ogni generazione deve qualcosa a tutte quelle che l’hanno preceduta.

Il sistema a ripartizione mette correttamente in evidenza questa interdipendenza che l’alternativa, cioè il sistema a capitalizzazione, oscura totalmente, spingendoci a credere che ogni individuo possa costruirsi la propria vita senza curarsi degli altri, solo sulla base delle proprie capacità, partendo da zero e accumulando progressivamente un gruzzoletto che gli garantirà una vecchiaia serena. Ma le famose buste arancioni dell’Inps hanno già fatto capire ai lavoratori di oggi che la capitalizzazione dei loro contributi garantirà in futuro, se tutto va bene, solo pensioni da fame.

D’altra parte, i contributi per le pensioni integrative sono difficili da sostenere in presenza di paghe miserabili e lavori precari e intermittenti. Senza contare che affidarsi a dei fondi privati è molto rischioso (il caso di Enron e la crisi del 2008 dovrebbero farci molto riflettere), e l’andamento dei rendimenti potrebbe non essere sempre favorevole come vorrebbero farci credere.

(…)

Oggi sentiamo vicino anche il pericolo diretto di una guerra che sembrava ormai un’eventualità impossibile. E con le guerre, si sa, i risparmi spariscono, oltre alle nostre stesse vite.

 

La bomba demografica

Anche questo aspetto è costantemente tirato in ballo dagli economisti dei salotti televisivi. (…) Se i lavoratori attivi diminuiscono per il calo demografico e i pensionati aumentano per l’aumentare della speranza di vita, i contributi versati, in breve tempo, non saranno più in grado di pagare le pensioni (anche perché il salario di riferimento diminuisce anziché aumentare!).

La soluzione adottata è semplicemente prolungare l’età lavorativa fino a 67 anni (e oltre), e lasciare ad ogni individuo la possibilità di costruirsi la pensione con i propri contributi obbligatori e volontari: lo Stato abbandona ognuno al proprio destino.

(…)

L’invito a fare più figli è patetico. I figli restano a carico delle famiglie fino a 25 anni e il sostegno pubblico è irrisorio, considerando la carenza di asili nido e del relativo personale, i problemi della scuola e della sanità, i costi insostenibili dell’università, e si potrebbe continuare a lungo con l’alimentazione, i trasporti, ecc. Dal punto di vista delle finanze pubbliche, il calo delle nascite rappresenta piuttosto un grosso risparmio per i servizi che non è più necessario erogare. D’altro canto, il livello di disoccupazione giovanile è altissimo. E allora perché fare figli se poi il lavoro per loro non c’è? E far lavorare più a lungo gli anziani non libera certo posti di lavoro per i giovani. Evidentemente il problema non è l’aritmetica demografica, ma la mancanza del lavoro.

 

La produttività e la ricchezza reale

Arriviamo alla questione centrale, che il senso comune e il pensiero corrente non prende in considerazione. L’innovazione tecnologica ha portato nel tempo ad un aumento enorme della produttività del lavoro. (…) Il progresso tecnologico fornisce produzioni sempre crescenti e richiede sempre meno lavoro umano: la disoccupazione è destinata ad aumentare sempre di più e a nulla servirà fare più figli. Ma allora, perché dobbiamo lavorare di più se è il lavoro che manca? Perché dobbiamo continuare a produrre sempre di più se poi non abbiamo la possibilità di accedere alla ricchezza materiale prodotta? Perché dobbiamo considerare un disastro l’aver raggiunto una speranza di vita maggiore, grazie ai miglioramenti nell’alimentazione, nei sistemi di cura, e nell’aver preso coscienza e poi acquisito dei diritti una volta inesistenti?

Esiste una ricchezza reale che ci viene oscurata da una ricchezza idealizzata nell’accumulazione di denaro, alla quale siamo tutti sottomessi. Forse è giunto il momento di uscire dalla caverna in cui ci siamo chiusi e guardare la realtà con nuovi occhi. La ricchezza che abbiamo prodotto non si può misurare col denaro.

 

Nessuna retromarcia: solo se troveremo un’alternativa ci salveremo

Nell’ultimo paragrafo del libro, dal titolo “Solo la retromarcia ci salverà”, (…) arriva la proposta finale: “…forse è arrivato il momento di non pensare più alla capitalizzazione soltanto come forma di previdenza integrativa per il cosiddetto ‘secondo pilastro’, ma direttamente per il primo, quello della previdenza obbligatoria. Per salvare le pensioni future non c’è altro da fare che una marcia indietro di ottant’anni”. Sembra un destino distopico inevitabile, la naturale conclusione di un periodo in cui abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità. E chi viene additato come unico colpevole di tutti i mali? Il sistema pensionistico a ripartizione, naturalmente!

Ma la soluzione non può essere una marcia indietro di ottant’anni e tornare al sistema a capitalizzazione. (…) Noi pensiamo che le alternative si possono e si devono trovare.

Le politiche neoliberiste non hanno risolto la crisi in cui ci troviamo da oltre quarant’anni, anzi si sono dimostrate inutili e dannose. Le privatizzazioni, le liberalizzazioni, l’austerità, lo smantellamento dello stato sociale, la precarizzazione del lavoro, hanno stimolato la competizione (tra persone, tra istituzioni, tra Stati) e un individualismo sempre più spinto.

Le disuguaglianze sono aumentate, la società si è frantumata e mancano dei valori condivisi che permettano di progettare un futuro migliore, in più oggi abbiamo una sfida gigantesca da affrontare: l’ambiente in cui viviamo si è ribellato alla nostra invadenza e i cambiamenti climatici ne sono solo un aspetto, peraltro negato o minimizzato da molti governanti.

In conclusione, il problema delle pensioni e dello stato sociale non si risolve con un ritorno al passato, ma va affrontato mantenendo salde le conquiste ottenute nei diritti sociali.

Certamente c’è bisogno di redistribuire la ricchezza, separare la previdenza dall’assistenza, combattere l’evasione fiscale e contributiva e tutte le furberie e nefandezze descritte nel libro (che non sono causate dal sistema a ripartizione), ma serve soprattutto un nuovo progetto di società, un nuovo modo di produrre, un nuovo modo di rapportarsi.

Proseguire nella direzione che stiamo percorrendo ci porterà a disastri ben peggiori di quelli accaduti ottant’anni fa con la Seconda guerra mondiale.

 

Mestre, 21 settembre 2023

 

 

Questo scritto, nato come lettera di osservazioni critiche al libro di Sergio Rizzo, rappresenta il frutto di un lavoro che da diverso tempo portiamo avanti. Abbiamo l’idea ambiziosa che possa stimolare in qualche modo una discussione più profonda per affrontare il problema delle pensioni e dello stato sociale anche da una prospettiva diversa.      

Il nostro gruppo si ritrova tutti i giovedì mattina a Mestre in via Buccari 22. Potete contattarci al seguente indirizzo e-mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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