La guerra a Gaza è un fallimento di Israele e dell’Occidente - di Milad Jubran Basir

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Il bilancio della guerra in atto in Palestina è sempre più drammatico: al 12 dicembre, a Gaza 18.412 morti, di cui 8.100 bambini, 6.200 donne, 290 operatori sanitari, 86 giornalisti, 64mila feriti, oltre 7.700 dispersi, un milione e ottocentomila sfollati, di cui 1,2 milioni accolti dall’Unrwa, 101 ambulanze distrutte, 221 scuole, 254mila case, tre chiese, 84 moschee, 22 ospedali e 110 strutture sanitarie resi inutilizzabili. In Cisgiordania dall’inizio di quest’anno sono 474 i palestinesi uccisi, 240 solo dal 7 ottobre, e 3.600 gli arrestati.

La Fondazione palestinese contro il muro e gli insediamenti in Cisgiordania pubblica nel suo rapporto periodico numeri incredibili: 1.692 aggressioni di soldati e di coloni contro villaggi e città palestinesi nell’arco del 2023, 35 famiglie palestinesi da Hebron e da Ramallah deportate e, in aggiunta, lo sradicamento di oltre 3.232 alberi di cui 3.082 olivi. Oggi in Cisgiordania ci sono 336 posti di blocco dei soldati, che separano i centri abitati palestinesi impedendo lo spostamento per lavoro, salute o acquisto di generi alimentari.

Dopo 67 giorni di bombardamenti senza precedenti da cielo, mare e terra, su tutto il territorio (Gaza è su 360 km quadrati), con bombe che pesano oltre 900 kg, si può stilare una valutazione di questa sporca guerra.

Il fallimento è di carattere umano, militare, politico, economico, culturale, sia per Israele che per l’Occidente, in modo particolare per gli storici alleati, gli Usa, in buona compagnia con le potenze europee, Inghilterra e Germania, Francia, Italia, che tracciano un’ambigua politica dell’Unione europea.

A livello umano, quando uno o più Stati provocano le tragedie di cui sopra in un arco di tempo così breve e continuano a provocare morti e distruzione e bombardamenti dei civili rifiutando ogni forma di tregua, mettono la firma sulla loro azione politica disumana.

A livello militare è evidente il potenziale presente in zona, con la sesta flotta Usa, le navi inglesi, il ponte aereo per forniture di armi e materiale bellico, con il territorio italiano diventato base importante, non solo Sigonella, per il transito di armi verso il governo israeliano. Ma quando il potente non realizza una forte vittoria significa che ha perso, e quando il debole sopravvive significa che ha vinto. L’accanimento verso la popolazione civile ne è la dimostrazione lampante.

A livello politico, questa guerra ha prodotto e produrrà conseguenze non solo tra Hamas e Israele, ma anche per il futuro dell’attuale governo israeliano e del primo ministro e nell’Autorità Nazionale Palestinese, totalmente inerte in questa fase complicatissima.

In Medio Oriente le conseguenze politiche implicheranno una recrudescenza del terrorismo internazionale, se non si avrà la capacità di fermare il massacro e trovare una soluzione che apra al dialogo reciproco.

Dal punto di vista economico, la distruzione totale delle infrastrutture e la demolizione di tutte le strutture produttive ha già provocato un disastro, povertà e riduzione dell’economia a livello di pura sussistenza. Un’amica mi scrive: “Qui non si muore solo di bombe, ma la gente inizia a morire di fame”.

Dal punto di vista culturale, questa guerra ha allargato il vuoto tra due mondi, il mondo Occidentale e quello Orientale. Da un lato e dall’altro ha unificato altri mondi storicamente antagonisti: il mondo Sunnita, rappresentato dai paesi arabi, e quello Sciita, rappresentato dal mondo persiano. Da questo punto di vista, la guerra e il comportamento dell’Europa ha di fatto dato il colpo di grazia ai movimenti di matrice laica, e regalato il mondo arabo ed islamico agli integralisti. Di conseguenza Hamas oggi e domani può contare su un bacino di 350 milioni di persone disperate e senza futuro.

Nel contesto attuale, nessun palestinese, nessun partito politico, nessuna organizzazione palestinese è disponibile ad ascoltare promesse e slogan da parte di nessuno e, per rispetto delle tante vite spezzate, il mondo intero è chiamato a rendere giustizia al popolo palestinese.

Se il mondo occidentale e in particolare l’Unione europea vogliono recuperare un ruolo agli occhi dei palestinesi, devono diventare fatti le promesse di risolvere in modo duraturo il conflitto palestino-israeliano, attraverso il riconoscimento immediato dello Stato di Palestina.

Quale sarà l’assetto futuro, se con due Stati distinti oppure una confederazione, lo capiremo solo al tavolo di una trattativa seria, che salvi i popoli in guerra e salvi anche gli Stati occidentali e dell’Ue dalla prospettiva di una regionalizzazione del conflitto e dall’allargamento degli scenari di guerra.

Il voto dell’Assemblea Generale della Nazione Unite del 12 dicembre, con una maggioranza storica di 153 Stati a favore del cessate il fuoco immediato, 10 contrari e 23 astenuti, tra cui l’Italia, rappresenta una speranza per mettere fine a questo genocidio. Ci auguriamo che sarà applicato perché potrebbe anche rappresentare l’inizio di un percorso nuovo per dare credibilità e fiducia a queste istituzioni internazionali.

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