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La solita Confindustria: questo patto non s’ha da fare!

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Il Presidente di Confindustria non si smentisce: incapace di autocritica sulla responsabilità degli industriali rispetto alla grave situazione sanitaria, sociale ed economica del Paese, all’assemblea dei soci scarica su altri le proprie responsabilità. Si rapporta al Presidente del Consiglio Draghi come se fosse l’amministratore delegato dell’azienda Italia, il “suo” uomo al comando, e ripropone per la ripresa e la crescita del Paese la ricetta liberista che ha al centro l’impresa, il mercato e il profitto. Vogliono conservare il potere, condizionare e indirizzare le scelte future e mettere mano alle ingenti risorse del Recovery Plan.

Dovrebbe preoccupare ogni democratico, quanto avvenuto nella kermesse di Confindustria. L’ovazione che il nostro capitalismo ha riservato al capo del “suo” governo dovrebbe dirla lunga: nei momenti cruciali del cambiamento, il potere finanziario ed economico entra pesantemente in gioco per difendere i propri interessi corporativi. Si identifica, sostiene il “partito” di Draghi e non certo la nostra democrazia parlamentare, divenuta un orpello al servizio di un esecutivo diretto dal tecnocrate liberista. La politica si attorciglia sui poteri e sullo scontro elettorale, mentre il Paese arranca e il Presidente del Consiglio decide senza nessun reale coinvolgimento del sindacato confederale cui vorrebbe riservare il ruolo di assistere a scelte già compiute, senza nessun potere di trattativa e di mediazione sulle singole materie.

Questo non è il nostro governo!

Abbiamo ascoltato la demagogica retorica antipolitica di Confindustria, che sottende un’idea involutiva e autoritaria della nostra democrazia rappresentativa e parlamentare. La Costituzione italiana è considerata un fastidioso orpello. Un certo padronato conservatore e fascistoide ha giocato un ruolo nefasto e complice nelle crisi del Paese. L’obiettivo è di ostacolare, con ogni mezzo, l’avanzata del movimento dei lavoratori e delle sue rivendicazioni, bloccare l’idea di progresso, di cambiamento e di giustizia sociale del mondo del lavoro e delle sue rappresentanze. Per questo la mobilitazione è necessaria.

Confindustria, anche oggi, vuole piegare a sé il governo dei “migliori” e rendere i partiti, il Parlamento, quasi insignificanti. Già ha condizionato il Ministro del Lavoro, ottenendo il blocco della pur timida legge sulle delocalizzazioni e un ritardo nelle scelte decisive per contrastare le stragi sui luoghi di lavoro. Insofferente ai “lacci e i laccioli”, contrasta e non applica le leggi di civiltà che limitano il suo potere. I padroni vogliono avere mani libere, anche di manomettere i dispositivi di sicurezza e violare le leggi sulla sicurezza. Si sentono padroni del futuro, della vita e della salute di chi lavora. E si scagliano contro il reddito di cittadinanza, quota 100 e una giusta riforma previdenziale. Bloccano la riforma degli ammortizzatori, ottengono la mancata proroga del blocco dei licenziamenti, piegano il governo su tamponi e green pass. Intanto il governo, ingabbiato dai veti politici, dai condizionamenti dei poteri finanziari e dalle culture liberiste, latita e prende tempo sulle richieste avanzate dal sindacato confederale.

Mentre Confindustria si chiama fuori dai ritardi accumulati, dai gravi problemi sociali del Paese amplificati dalla pandemia, rimuove la disoccupazione giovanile, la precarietà di vita e di lavoro, il lavoro nero e schiavizzato, i diritti negati e il misero salario per i cosiddetti lavori poveri, così essenziali nella pandemia per la vita delle persone e la tenuta del Paese. Nulla sulle stragi di donne e uomini nei luoghi di lavoro, sulle condizioni di lavoro in un Paese caratterizzato dai più bassi salari e dall’orario più lungo, dove spesso la Costituzione si ferma fuori dai cancelli dei luoghi di lavoro. Il padronato ripropone la sua visione di futuro e si esprime con l’arroganza e il disprezzo consueti. Bonomi rimuove persino che l’alto numero di morti per Covid nella sua Lombardia è dovuto anche al fatto che molti suoi associati non hanno chiuso in tempo le aziende, e che negli anni il sistema sanitario pubblico è stato smantellato in favore del privato. Senza vergogna afferma che i suoi associati sono considerati come dei bancomat. Dimentica i miliardi di euro pubblici ricevuti a pioggia in questi anni dai vari governi; un costo economico senza contropartite, a carico della collettività e di chi paga le tasse.

Oggi gli industriali rilanciano, insieme a Draghi, alle forze politiche che lo sostengono - voce nel coro stonato anche quella del segretario del Pd Letta - un nuovo Patto sociale per la crescita, per l’uscita dalla crisi sanitaria, sociale e occupazionale.

Siamo un Paese smemorato. La politica, i partiti, i poteri economici e finanziari, incapaci di autocritica sulle scelte fatte, ripropongono oggi, come demagogico feticcio, il patto sociale del 1993 tra il governo Ciampi, Confindustria e CGIL, CISL, UIL, rendendone una narrazione falsa. Era un’altra epoca, eravamo dentro il famigerato trattato di Maastricht che imponeva una dura, ingiusta e ricattatoria politica di sacrifici, in presenza di una crisi democratica drammatica; il contesto sociale e la crisi economica erano diversi, ed eravamo nel pieno delle inchieste giudiziarie di Tangentopoli, senza dimenticare l’uccisione per mano della mafia dei giudici Falcone e Borsellino.

Non vanno rimosse le conseguenze di quel patto che ha scaricato il costo della crisi economica e delle richieste imposte dall'Europa finanziaria e mercantile sul sistema sociale pubblico, sul mondo del lavoro e sulla popolazione meno abbiente, allontanando il sindacato dal suo mondo, dalla sua rappresentanza sociale.

Il Patto tanto richiamato siglato il 23 luglio del ‘93 faceva seguito a quello precedente del 31 luglio 1992, firmato a fabbriche chiuse, che prevedeva la definitiva presa d'atto della cessazione del sistema di indicizzazione dei salari, la “scala mobile”. Il Protocollo del 1993 prevedeva l’erogazione di un’una tantum non riassorbibile di 20.000 lire mensili per gli anni ’92 e ’93, la moratoria della contrattazione nazionale e aziendale per quei due anni e l’obiettivo di ricondurre l’inflazione al 2% annuo a fine 1994. Gli aumenti contrattuali avrebbero dovuto stare entro i tetti di inflazione programmata, eventuali incrementi di salario reale sarebbero stati determinati solo in sede di contrattazione integrativa. Governo e imprese avrebbero dovuto garantire la sterilizzazione e il controllo di prezzi e tariffe. Tre incontri annuali avrebbero determinato gli interventi correttivi in sede di definizione di Legge finanziaria. L’accordo fu presentato come una vittoria, che avrebbe consentito l’estensione della contrattazione integrativa in tutte le aziende e tutte le categorie, e un prezzo da pagare per garantire il rispetto delle condizioni previste dal Trattato di Maastricht per l’Unione europea che sarebbe entrato in vigore nel novembre del 1993, per affrontare una crisi economica e finanziaria gravissima.

Nonostante l’Europa godesse allora tra i lavoratori di grandi consensi e aspettative e che la lettura del Trattato di Maastricht fosse addolcita dalla discussione in corso sul futuro Libro bianco di Delors su crescita, competitività, occupazione che sarebbe stato pubblicato a dicembre, la consultazione registrò, complessivamente, sui 3.500.000 consultati, oltre il 30% di voti contrari, più del 50% di contrari tra operaie e operai. Ci furono scioperi spontanei di protesta proclamati dai Consigli di fabbrica e da gruppi di lavoratori sindacalmente organizzati. Nell’applicazione dell’accordo le uniche cose che furono messe in atto furono la sterilizzazione dell’autorità salariale del CCNL e l’abolizione di qualsiasi automatismo per far fronte all’inflazione, mentre mai arrivò la “seconda fase” di adozione di politiche per porre sotto controllo prezzi e tariffe. La politica di concertazione è stata seppellita con il primo governo Berlusconi nel 1994, e con essa le buone intenzioni del Protocollo del 1993, mentre i vincoli per la contrattazione si sono protratti negli anni, usando il mancato rispetto dei rinnovi contrattuali per demolire del tutto la capacità dei contratti stessi di recuperare il divario tra inflazione reale e inflazione programmata, mentre la contrattazione di secondo livello resta una chimera per la stragrande maggioranza dei lavoratori.

Nel 1993 è iniziato il declino dei salari e del loro potere d’acquisto, che si è protratto fino ad oggi, e il sindacalismo confederale ne è uscito indebolito come soggetto di contrattazione e rappresentanza. Molte conquiste e diritti sindacali iniziarono a essere rimossi. Al Protocollo del 1993 hanno fatto seguito la controriforma previdenziale del 1995 di Dini, il pacchetto Treu del 1997, la Legge Sacconi del 2003, fino al Jobs act di Renzi, con l’abolizione dell’articolo 18.

Un nuovo patto sociale, in questo contesto sociale e politico, con questa Confindustria, con questo Presidente del Consiglio non s’ha da fare. Si tradurrebbe in una gabbia neo concertativa corporativa, limitativa dell’autonomia del sindacato. Sarebbe l’isolamento sociale e politico del mondo del lavoro, della parte più esposta e più debole della popolazione. Sarebbe un altro colpo alla nostra democrazia rappresentativa e parlamentare da cui usciremmo tutte e tutti stritolati. Da troppo tempo il nostro Paese è governato dai cosiddetti tecnici e dagli interessi prevalenti e di classe. Per loro tutto deve cambiare perché nulla di sostanziale cambi.

Non è una questione ideologica. È il frutto dell’esperienza trentennale del movimento sindacale, vissuta nella materialità della vita di milioni di donne e uomini che lavorano, che hanno lavorato o che hanno cercato di trovare con il lavoro dignità, salario e condizioni di vita degne. Non c’è bisogno di un nuovo patto sociale neo corporativo, ma di un confronto serrato, di accordi sostanziali, di intese, verificabili e applicabili, di leggi e di interventi che diano risposte cogenti ai tanti problemi aperti, alle storture e ai limiti di sempre del Paese. Né sono sufficienti generici protocolli, soggetti a interpretazioni o ad essere subito disattesi dal governo, come quelli sulla scuola e la pubblica amministrazione - una scuola, università, ricerca e un lavoro pubblico da valorizzare, recuperando il ridimensionamento qualitativo e occupazionale degli scorsi decenni.

Il governo cerca di scaricare sul sindacato la responsabilità di scelte impopolari sui licenziamenti, sulle dinamiche salariali, sulla precarietà del lavoro, sulla previdenza, rispolverando patti epocali che mettono sullo stesso piano lavoratori e padroni, seguendo i diktat di Confindustria. La ricostruzione che Draghi ha fatto delle vicende economiche e sociali del nostro Paese, a partire dal Dopoguerra, con un attacco reazionario alle conquiste economiche, sociali e di costume degli anni Settanta, dove si sarebbe rotto il quadro idilliaco per le imprese degli anni Cinquanta, ripropone il ritorno più o meno autoritario al comando diretto dell’impresa sul Lavoro dentro la fabbrica e nella società.

Fa bene quindi il Segretario generale della CGIL Maurizio Landini a difendere, di fronte agli attacchi di Confindustria e di Draghi, la stagione rivendicativa e di lotte degli anni Settanta, le cui conquiste in questi ultimi trent’anni sono state smantellate o indebolite dai governi di centrodestra, ma anche di centrosinistra. Sono stati gli anni dello "Statuto dei diritti dei lavoratori", del punto unico di contingenza, delle riforme previdenziale e sanitaria.

Ad ognuno il suo mestiere, al sindacato quello di rappresentare, difendere e affermare i bisogni delle lavoratrici e dei lavoratori, dei pensionati, dei disoccupati e degli inoccupati. Alla politica spetta dare risposte, ai progressisti e alla sinistra farsi riconoscere dal mondo del lavoro e dai ceti meno abbienti. Senza libertà non ci sono diritti sociali e senza diritti sociali non c’è libertà, come affermava il Presidente Sandro Pertini. Le forze politiche di centro sinistra e progressiste recuperino senso e ruolo della loro presenza, riconquistino la rappresentanza nel mondo del lavoro e smettano di ascoltare Bonomi e Confindustria. Escano dalla gabbia mortale del liberismo e non si illudano: l’equidistanza tra capitale e lavoro non è possibile, bisogna scegliere senza ambiguità per chi, per cosa e per quale Paese si vuole lottare. Indicando, magari, proposte, scelte e leggi per rimettere al centro il lavoro e il suo valore, per combattere la disoccupazione e la precarietà diffuse, cresciute anche grazie a leggi approvate dai governi di centro sinistra. Il centro sinistra abbandoni la cultura liberista della diseguaglianza e della povertà, difenda e applichi concretamente la nostra Costituzione Repubblicana e dia voce e risposte concrete alle domande, alle tensioni, alle diseguaglianze presenti nel Paese reale e nella società. Riprendendo in Parlamento la Legge di iniziativa popolare per un nuovo Statuto dei lavoratori presentata con milioni di firme dalla CGIL nel 2016.

Ognuno faccia la sua parte. La CGIL ha definito il suo progetto di radicale cambiamento rispetto al passato, è impegnata con la mobilitazione a conquistare gli obiettivi indicati, con una unità del mondo del lavoro e del sindacato confederale, in alleanza con le rappresentanze sociali e le tante associazioni democratiche, antifasciste, femministe, ecologiste, studentesche, giovanili e laiche che innervano la società. Abbiamo bisogno di nuova e consapevole partecipazione, di costruire migliori rapporti di forza tra capitale e lavoro, per conquistare e costruire un futuro migliore per il Paese.

“Lavoro Società- Per una CGIL unita e plurale”

28 settembre 2021

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