C’è anche qualcosa di umoristico nello scandalo Volkswagen. Qualcosa insito nella struttura della lingua, e del costume, dei popoli di lingua tedesca: l’equivalenza dei concetti di debito e di colpa, per i quali il loro, pur ricchissimo dizionario indica un solo termine: “schuld”. Una parola che è stata scagliata contro il popolo greco (debitore, quindi colpevole) e poi, come un boomerang, è tornata indietro. Andando a colpire l’essenza stessa del made in Germany.
La scoperta che il management della più conosciuta industria del paese, con il silenzio-assenso del governo, manipolava gli indicatori sulle emissioni nocive delle autovetture con motore diesel, non è soltanto una figuraccia epocale. E’ anche uno strappo al velo dell’ipocrisia europea: gli addetti ai lavori sanno bene che i tentativi dell’Unione europea di armonizzare e rendere stringenti le norme sull’inquinamento automobilistico si schiantano, da anni, contro il muro eretto da numerosi paesi membri. Con i mattoni e il cemento forniti dalle case costruttrici.
A perderci, come sempre, è la collettività, quotidianamente immersa in sistemi urbani e metropolitani di mobilità che da tempo sono ben oltre il limite fisiologico. Con il popolo perdono anche i lavoratori, gli operai, vittime anch’essi ma con una percentuale di concorso di colpa. In Germania siedono nei consigli di amministrazione delle compagnie, ma in quella sede non raccontano quello che i loro figli imparano a scuola in tema di mobilità, anche privata, sostenibile.

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