Ci sono storie che arrivano dritte dall’ottocento. Due secoli fa. Lo spaccato di un paese che ti sembra di non aver mai conosciuto. Eppure ci sei nata e cresciuta. Se le lotte operaie hanno portato alla giornata lavorativa di otto ore, nelle campagne pugliesi siamo ancora al medioevo. “Inizi alle sei del mattino, alle sette di sera sei ancora nei campi a tagliare uva. Sei un animale, non una persona”. Francesca Marziliano è un’operaia agricola come non ce ne sono tante altre. Lei racconta, senza peli sulla lingua, la piaga del caporalato. E una cosa è leggere una breve su un giornale, ben altro stare ad ascoltare dalla voce di una testimone diretta.
Lei ti porta per mano dentro una sorta di girone dantesco. “Si lavora dodici ore di fila, anche più. Cinque minuti di pausa verso le nove per una piccola merenda, altri cinque nel pomeriggio. E per ogni interruzione tolgono mezz’ora dal conteggio delle ore lavorate”. Diciamolo, sono le imprese a creare il caporalato, dal Piemonte alla Puglia: “La gestione del lavoro è affidata a incompetenti, tirapiedi, guardiani pronti a urlare come giri la testa. Gli spostamenti da un campo all’altro vengono scalati dall’orario di lavoro - spiega Francesca - stai fuori tredici ore e ne conteggiano solo nove”.
Francesca ha iniziato a lavorare in campo agricolo nel 2006, è stata anche un’addetta ai magazzini. Ma anche lì la musica non cambia. Ore e ore in piedi, mentre i caporioni passano fra i banchi per gridarti di fare più in fretta: “Cinque minuti per andare in bagno. Mi è capitato di impiegarne sette, avevo mal di pancia. Mi hanno subito richiamata e mi hanno detto: ‘la prossima volta facciamo il verbale”. In estate dei lavoratori agricoli sono morti. Li fanno passare per incidenti o malori, ma non è così. E non sono solo gli immigrati ad essere vittime del caporalato. “Per noi e gli immigrati le condizioni sono identiche. Ti ammazzi di fatica”.
L’azienda dove lavora Francesca ha avuto recentemente un controllo della finanza. “Ci avevano avvisato in anticipo - rivela - dovevamo dire che lavoravamo sei ore e quaranta, e che ogni norma di sicurezza è rispettata. Mentre il padrone ascolta, pronto a cacciarti se sgarri”. Come schiavi moderni, gli operai agricoli subiscono vessazioni di ogni tipo: “Se hai bisogno del bagno hai a disposizione cinque minuti anche in campagna – racconta - devi allontanarti di corsa in mezzo ai campi e tornare di corsa. E ci sono guardoni che ti seguono e sbirciano”.
Un’arma ben affilata quella del ricatto del lavoro, usata da un capo all’altro della penisola. Orchidea frutta, Puglia fruit di Giuliano, Tarulli, fra Turi e Casamassima: cambiano i nomi delle aziende e i luoghi, ma non le condizioni di lavoro: “Ho lavorato per la più importante ditta pugliese, e non mi hanno rinnovato il contratto per ‘difficoltà produttive’. Eppure avevano appena fatto nuove assunzioni”. L’agricoltura è un pianeta a parte, piccole e grandi ditte private, dove il sindacato fa fatica a entrare. “O accetti le loro condizioni o vieni sbattuta fuori. Hai lavorato 56 ore? Ne risultano 36. E lo straordinario è pagato 5 euro l’ora”. Cartoline dall’Italia reale, quella che non va in televisione. Se non quando ci scappa il morto.
I contratti del comparto agricolo, manco a dirlo, sono rigorosamente stagionali. È un far west da pochi euro l’ora, con tanto di turni di notte. Perché ci sono lavoratori, in fuga dalla miseria, disposti ad accettare tutto. Quest’anno poi la bolla di aria africana che ha investito l’Italia ha reso ancor più pesante il lavoro: “Ma non c’è solo il caldo – ricorda l’operaia - pensa che stavo sfrascando quando è arrivato il trattore con le pompe per dare l’insetticida. Ha preso anche noi. Come fossimo pidocchi”.
Nel secolo scorso Giuseppe Di Vittorio avviò una battaglia sindacale e civile contro le condizioni semischiavistiche in agricoltura. Sono passati sessant’anni e non è cambiato nulla. “Se piove devi comunque stare sotto i filari - chiarisce Francesca – mentre l’uva viene ricoperta da tendoni, perché conta più dei lavoratori che si massacrano sollevando cassette, bilance, pedane rimaste nel fango”.
L’Italia del 2015 è anche quella dove una donna di sessant’anni è costretta a lavorare ancora nei campi. “Lo Stato ha deciso che non posso andare in pensione. Non ho scelta”. Se non quella della denuncia: “Sei un animale a cui non regalano una carezza. Piuttosto arrivano anche proposte oscene. C’è chi pensa che le operaie agricole siano né più né meno che donne di strada”. Ma Francesca Marziliano non ha paura di dire le cose come stanno: “Altrimenti perdiamo tutti, italiani e stranieri”.