Quando ho ricevuto l’invito dalla redazione per un articolo sull’andamento degli infortuni e delle malattie professionali, direi sulle tecnopatie da lavoro, sullo stato di salute di chi lavora, ho riposto frettolosamente che non c’era problema. Ora che mi sono messo di buzzo buono a redigere l’articolo invece i problemi paiono insormontabili. Sintetizzare, come mi viene richiesto, è difficile. Tenterò iniziando dai numeri.
L’andamento esposto nelle tabelle 1 e 2 mi sembra sufficiente per fare considerazioni non generiche, riferendosi ad un lustro appena trascorso. Chiunque ne abbia voglia può cimentarsi a scendere sullo specifico, consultando la sezione “open data” dal sito www.inail.it. Mi limito pertanto alle considerazioni seguenti.

Il costante calo degli infortuni, pur se positivo, è influenzato dalla situazione di forte crisi, dalla deregolamentazione del mercato del lavoro, dal calo occupazionale. Certo, avrà anche influito in questa tendenza al calo il ruolo degli Rls o delle parti sociali. Anche la politica di incentivi dell’Inail. Ma non bisogna farsi troppe illusioni. Le ore di cig, qualche miliardata all’anno, e più di 80 milioni di voucher del lavoro, sicuramente hanno influenzato pesantemente questa tendenza alla riduzione. Con la cig non c’è lavoro, con i voucher c’è una forte elusione. Quindi è bene essere guardinghi, e non abbassare la guardia, per verificare che questa tendenza alla riduzione degli infortuni continui. Se si confermasse in una situazione di ripresa occupazionale, sarebbe un risultato positivo.

Le morti bianche – da infortunio – con la timida ripresa economica del 2015 hanno ripreso a correre, e sono passate dalle 920 dei primi 11 mesi del 2014 alle 1.080 degli stessi mesi del 2015. Quindi pare che il trend si stia invertendo, al peggio. Però spero e mi auguro di essere smentito.

Più del 70% degli infortunati è al di sotto dei 50 anni, in tutti i cinque anni di rilevazione. Quindi non cala nel quinquennio la tendenza ad invalidare le giovani generazioni. Purtroppo analoga percentuale si verifica anche per le morti bianche. Quindi una strage di giovani.

L’aumento delle malattie professionali è, invece, in continua, preoccupante crescita. C’è l’esplosione di quelle muscolo scheletriche, ma è anche preoccupante il costante aumento delle patologie tumorali, particolarmente quelle asbesto collegate. E’ vero, spesso una malattia professionale è figlia di esposizioni non recenti. Ma è bene sapere che la valutazione dello stato di salute nei luoghi di lavoro va fatta tenendo conto di quanto è successo in passato, oltreché delle recenti o nuove esposizioni.

Infine è bene tenere presente che i dati Inail non sono esaustivi di tutto: mancano, ad esempio, gli infortuni e le malattie non denunciati, per motivi spesso non nobili, da parte datoriale, o per timori della perdita del lavoro da parte dei lavoratori. Poi che alle morti bianche da infortunio bisognerà aggiungere le morti bianche da malattia professionale, cosa che nessuno fa: negli ultimi cinque anni, di media, sono state più di 1.800, molto superiori a quelle da infortunio.

Per concludere mi sembra giusto evitare l’ottimismo. C’è ancora molto da fare. Molto si può e si deve fare. Ognuno faccia la sua parte: il sindacato rimetta al centro il problema della salute nei luoghi di lavoro, perché non c’è contraddizione tra lavoro sicuro e sviluppo. E le istituzioni siano, da un lato, più promotrici di prevenzione, dall’altro esercitino un controllo deterrente del lavoro nero e della illegalità, che sono la tomba dei diritti e un freno allo sviluppo sociale.

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