Una buona legge sulle unioni fra persone dello stesso sesso abbatterebbe finalmente una diseguaglianza, nel nome dell’articolo 3 della Costituzione. Un diritto in più è una ricchezza per tutte e tutti.

Tra alcune settimane l’Italia potrebbe trovarsi nella condizione di approvare la sua prima legge che riconosce le unioni fra persone dello stesso sesso. Una legge che ha occupato a lungo uno spazio consistente nel dibattito pubblico, nel quale si è concentrata una gamma ampia di pensieri e superstizioni, quelli che avevamo già incontrato diluiti nei tanti anni durante i quali è stata combattuta questa battaglia. Ma c’è di più: le cento piazze che lo scorso 23 gennaio hanno rivolto al nostro Parlamento una inequivocabile domanda di diritti, ci hanno consegnato una giornata storica. Una mobilitazione vastissima si è nutrita del desiderio e dell’entusiasmo di tante e tanti che hanno a cuore il valore dell’uguaglianza.

C’è un mondo intero che ci sprona a infrangere le barriere che precludono a tanti a tante la legittima e sacrosanta aspirazione alla felicità. Nelle numerose piazze mobilitate abbiamo raccolto più di un milione di persone: una vasta porzione di società civile è scesa per le strade senza paura, nella consapevolezza che un diritto in più è una ricchezza per tutte e tutti, e nell’ostinata convinzione che ogni battaglia vinta sposti il fronte in avanti, e produca un contropiede sano in un paese che troppo spesso, in tema di diritti, rischia di arretrare.

È bello e necessario, quindi, che questa discussione sia capillare e che coinvolga e interroghi nel profondo anche le persone eterosessuali o quelle che non hanno nel proprio orizzonte, quantomeno imminente, il progetto o la necessità di fissare dei vincoli relazionali. Perché c’è un valore simbolico in questa battaglia, in primo luogo, ma anche perché in questo dibattito stiamo colpendo al cuore un tema - la diseguaglianza - che ha una radice culturale profonda.

Chi si ostina a preservare una disparità sociale contravviene alla vocazione della nostra Carta costituzionale, che nell’abbattimento di ogni diseguaglianza all’articolo 3 ha uno dei germogli più belli. È nostro compito, perciò, portarlo a fioritura, saperlo tutelare dalle gelate e dai parassiti che potrebbero precludergli la primavera.

I pericoli, fuori di metafora, sono quelli di sempre: dobbiamo temere la cultura machista e sessista, quella che impone gerarchie e ortodossie nelle relazioni, nei generi e negli orientamenti, che definisce la donna debole e l’omosessuale un deviante. Dobbiamo temere gli integralismi, le persone che credono di avere una verità in tasca, che si scriva perfino con la lettera maiuscola, e che soprattutto sia buona per tutti. Dobbiamo guardarci da chi riduce tutto a una questione di calcolo, da chi potrebbe aver intuito l’opportunità di ottenere un vantaggio, personale o politico, dall’eventuale naufragio di una legge che parla di diritti. Il testo sulle unioni civili in discussione in Parlamento non è perfetto e non è nemmeno d’avanguardia, anzi se convertito in legge è destinato ad accodarsi in fondo alla fila nella letteratura dei provvedimenti in materia.

A voler essere rigorosi fino in fondo, dovremmo dire che quella legge porta in sé le cicatrici di tutti gli attacchi a cui è sopravvissuta. È una legge mutilata, che ha perso per strada non solo l’aspirazione alla piena uguaglianza ma anche tante altre cose, piccole o grandi, il cui sacrificio serviva a rendere un po’ più spesso il muro che divide (e ancora dividerà) le coppie omosessuali da quelle eterosessuali. Però senza quella legge sarebbe sicuramente peggio, e soprattutto grazie a quella legge, se venisse approvata senza ulteriori ribassi, la vita di tante persone e soprattutto dei loro figli potrebbe ottenere la sicurezza e la stabilità di cui hanno diritto. Per questo motivo non molliamo il campo di questa battaglia, e per questo motivo ci piace, in queste giornate cariche di fibrillazione, sentire la sintonia di una comunità ampia e resistente. La parte più bella di questo paese.

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