In “Andare. Camminare. Lavorare” (Feltrinelli, pag. 338, euro 18) Angelo Ferracuti racconta il belpaese grazie al fondamentale supporto dei postini: “I maggiori conoscitori della quotidianità, e in alcuni casi anche della realtà”.

“Andare. Camminare. Lavorare” di Angelo Ferracuti è un libro stupendo e profondo, poichè nell’epoca della comunicazione via email, e dell’esaltazione del lavoro cognitivo, valorizza la figura umile ma tutt’altro che tramontata del portalettere. Ferracuti conosce bene l’attività del portalettere, avendola svolta per quindici anni, prima di passare a mansioni d’ufficio, mentre coltivava la passione per la scrittura che abbiamo potuto apprezzare, tra l’altro, sulle pagine culturali di Rassegna Sindacale.

Con uno scrittore tra i suoi dipendenti, niente di meglio per Poste Italiane - la quinta azienda del nostro paese, se si contabilizzano anche i proventi derivanti dalle attività finanziarie e assicurative - che pensare ad una strenna natalizia in centocinquantamila copie riservata ai dipendenti, grazie a un viaggio per l’Italia di Ferracuti durato sei mesi.

Con tredicimila uffici capillarmente diffusi lungo la penisola non era certo semplice individuare i microcosmi essenziali per tessere la trama della narrazione. Ma Ferracuti è un abile reporter, che sa fare inchiesta sul territorio e soprattutto evidenziare le contraddizioni sociali che lo attanagliano. Avvalendosi, nelle venti regioni visitate, del supporto fondamentale dei postini, che sono “i maggiori conoscitori della quotidianità, e in alcuni casi anche della realtà”.

Postini e postine che Ferracuti descrive quasi religiosamente nella fisionomia e nelle movenze con cui lo hanno accompagnato amorevolmente per vicoli, vie, piazze, strade sterrate e addirittura in motoscafo, come alle Tremiti, nei luoghi a loro più che familiari.

Da Chamois in Val d’Aosta fino all’isola del postino di Salina in Sicilia, sono ben cinquantatre i microcosmi che compongono l’itinerario proposto da Ferracuti, che dedica anche una certa attenzione a quei territori “ove la vita è rimasta agli anni cinquanta”, come ad Aquilonia e Bisaccia in Irpinia, Craco, il “paese fantasma” della Basilicata, oppure Orgosolo, la terra dei pastori sardi, e Lungro in Calabria, nella terra degli Arbereshe. Indigna invece lo spaccato che ritrae il quartiere Tamburi a Taranto. Lì dove la logica del profitto, unita ad un modello di sviluppo distruttivo, ha ridotto la città ad essere catalogata come “il fecciume d’Italia”.

Per ogni microcosmo il racconto di Ferracuti tratteggia i principali avvenimenti storici, la geografia dei luoghi, le bellezze naturali ed architettoniche, nonchè il malessere sociale acuito dalla grande crisi, e dalla corrosione dei valori generata dal dilagante consumismo.

Da questi racconti, altresì, emerge nitida “la sua scrittura francescana, spogliata di ogni orpello, naturale come quella pronunciata ad alta voce”, arricchita dalle puntuali istantanee degli scrittori (Pavese, Fenoglio, Calvino, Consolo, Alvaro, Guareschi, don Milani, ecc.) che su quei luoghi hanno posato lo sguardo. Una scrittura che umilmente riconosce anche il debito contratto con gli scrittori più amati da Ferracuti. Maestri del calibro di Biamonti, Bianciardi e Mastronardi, oltre al legame affettivo con il fotografo marchigiano Mario Dondero, recentemente scomparso. l

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