Nel libro “Il lavoro non basta” (Feltrinelli, pag. 135, euro 15), Chiara Saraceno nota amaramente: “Il contrasto alle povertà, oggi come un tempo, non produce né mobilitazione né indignazione”. Mentre la povertà colpisce sempre più anche il mondo del lavoro.


Condizioni di miseria e di povertà hanno caratterizzato la storia del nostro paese, soprattutto concentrate nel mezzogiorno d’Italia, tanto che nel 1951, dopo il libro denuncia “Cristo si è fermato a Eboli” di Carlo Levi, la commissione parlamentare d’inchiesta verificò che un quarto della popolazione viveva in case sovraffollate o di tipo improprio, oltre a patire gravi carenze sul piano dei consumi alimentari di base (carne, zucchero, vino, ecc.).

Se l’inchiesta fece emergere i limiti del nostro sistema assistenziale, una diminuzione della povertà assoluta si registrò solo negli anni ‘70, quando l’introduzione della pensione sociale e di quella integrata al minimo permise a molti anziani di sfuggire da condizioni di vera e propria indigenza. Il fenomeno fu di nuovo monitorato solo nel 1986 dalla commissione d’indagine sulla povertà, presieduta da Ermanno Gorrieri, per diventare poi macroscopico nella sua drammaticità con la recessione economica che, a partire dal biennio 2008-09, ha investito sia l’Europa che il nostro paese.

I dati forniti da Chiara Saraceno nel suo recente “Il lavoro non basta” (Feltrinelli, pag. 135, euro 15) sono eloquenti: 43 milioni di cittadini europei non dispongono di una sufficiente alimentazione, e nel 2012 l’Eurostat ha rilevato che il 24,8% della popolazione dei 28 paesi della Ue è a rischio di esclusione e povertà. Mentre in Italia la povertà assoluta è passata dal 4,1% del 2007 al 7,9% del 2013, diversamente da quella relativa, il cui aumento è risultato più contenuto.

Quel che emerge, al di là delle statistiche, sono le nuove figure trascinate nel vortice della povertà: i nuclei familiari lacerati dall’instabilità coniugale; le famiglie monoreddito; i working poors; le donne che scontano maggior inattività; part-time involontari e contratti atipici che comportano retribuzioni molto basse. Le ricadute di questi fattori in particolare sui bambini sono preoccupanti: il 4% di essi non fa un pasto proteico al giorno, e soprattutto patisce sia una forte deprivazione materiale che educativa, con gravi ripercussioni sui naturali percorsi di apprendimento.

In un contesto segnato da questo approfondimento delle disuguaglianze, per Chiara Saraceno è grave che il nostro paese non si sia ancora dotato di un sistema di protezione sociale adeguato, mentre una serie di provvedimenti adottati negli ultimi anni - dall’abolizione dell’imposta di successione allo sconto fiscale degli 80 euro, dall’eliminazione dell’Ici e dell’Imu sulla prima casa alla Tasi - hanno mobilitato risorse volte a favorire o i ceti più abbienti, o con finalità puramente di carattere elettorale.

D’altronde non solo siamo uno dei paesi d’Europa dove non è previsto un reddito minimo per i poveri a livello nazionale, ma sia le sperimentazioni avviate sporadicamente nel recente passato (reddito minimo di inserimento, carte acquisti, social card, sostegno di inclusione attiva e Asdi), sia la nuova Asdi varata dal governo Renzi per il quadriennio 2016-19 non hanno avuto e non hanno alcun respiro di carattere universalistico.
Infine, seppur in Parlamento giacciano una serie di proposte di legge di sostegno al reddito dei poveri, mentre alcune regioni (Basilicata, Friuli Venezia Giulia, Valle d’Aosta) hanno attivato alcune misure in questa direzione anche se limitate nella temporalità, bisogna convenire con Saraceno quando amaramente afferma: “Il contrasto alle povertà, oggi come un tempo, non produce né mobilitazione né indignazione”. 

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