A meno di un mese dalle elezioni, Napoli e la sua provincia sono prese da un assalto criminale che ha superato le ricostruzioni di film e fiction ormai famose in tutto il mondo. Ci sono uomini e donne disposti a far saltare in aria interi palazzi per colpire il nemico. Il pericolo è alto, se possibile ancora maggiore di quando i vecchi padrini guidavano le loro famiglie e calcolavano il costo-beneficio dei loro raid, dentro precise gerarchie criminali. Carichi di droga e di ignoranza, i camorristi vanno all’assalto di Napoli come se non ci fosse un domani. Lo annunciano persino sui social network, con messaggi e foto inequivocabili.

Non ci si può girare dall’altra parte, minimizzando quella che sta diventando una cronica emergenza. Basti pensare che l’economia criminale, a Napoli, vale tra i quindici e i venti miliardi di euro l’anno, e che spesso è riversata sul mercato legale, inquinandolo e stravolgendolo. Il suo sistema logistico è uno dei principali snodi di smistamento europeo di merci contraffatte.

La società civile napoletana, spesso distratta e distante rispetto a tutto ciò, sarà capace di uno scatto di consapevolezza e impegno? Nel transito dai partiti di massa a una politica sempre più frantumata e personalizzata, la campagna elettorale per ora non è all’altezza delle sfide che attendono questa città. La tormentata fase di presentazione delle liste ha messo in luce, una volta di più, la debolezza dei partiti, con il rischio di una più agevole infiltrazione dei poteri criminali. La proliferazione dei candidati, uno ogni ottanta abitanti, è l’altra faccia dello scetticismo, e paradossalmente conferma il diffuso disinteresse per la politica.

In un clima di rissa personale, si lasciano nell’angolo il disagio della vita quotidiana, specialmente delle periferie, il degrado urbano, il traffico, i trasporti, le questioni irrisolte dello sviluppo, del lavoro e della sicurezza. Poco si discute dell’enorme potenziale di crescita racchiuso nell’arte, nella cultura, nel turismo e nella formazione. Non si ha nemmeno l’eco di programmi che abbiano uno sguardo lungo sulle politiche urbane, capaci di tenere insieme le infrastrutture dei trasporti, la raccolta differenziata dei rifiuti, e le politiche di integrazione.

Riformare l’intera infrastruttura istituzionale del governo della città è indispensabile alla creazione della città metropolitana. Un pensiero lungo che rimetta in corsa Napoli come città europea, attraverso uno sviluppo urbano del patrimonio edilizio storico privo di manutenzione, sviluppando nei cittadini un senso di appartenenza ai luoghi, e a considerare l’insieme della città un patrimonio comune, contro l’idea di una città divisa in zone della movida, come i grandi agglomerati del consumo, dove si è addestrati a essere soprattutto buoni consumatori e non cittadini consapevoli. L’esito di queste elezioni riuscirà a dare risposte credibili ad alcuni di questi problemi? Purtroppo lo scetticismo aumenta di fronte a quarantasette liste con oltre 10mila candidati. Molti di questi non riusciranno a raccogliere più di una manciata di voti, amplificando quel frazionamento elettorale che è l’antitesi della governabilità. La prima cosa che colpisce è come la crescita dei candidati risulti in controtendenza rispetto al dilagante astensionismo: alle ultime elezioni regionali votò un elettore su due. Spontanea è la domanda: ma chi sono questi diecimila neopolitici? La domanda successiva è: perché tanta gente si candida?

In realtà questa nuova corsa al posto nelle liste dovrebbe suscitare una forte preoccupazione in tutti quelli che si rendono conto della gravità dei problemi di Napoli, e del compito gravoso, quasi disperato, che il prossimo sindaco, la sua giunta e il nuovo consiglio comunale sono chiamati ad affrontare. La situazione è paradossale: la necessità di ricostruire una nuova classe dirigente delle istituzioni, a fronte della scomparsa di formazioni politiche organizzate.

Ci troviamo nel mezzo di una deriva di politica liquida che lascia spazio all’intraprendenza e all’improvvisazione di nuovi masanielli. Il pensiero va a quando, in altra epoca storica, gli operai napoletani si riunivano a piazza Mancini per l’ultimo comizio elettorale. Ascoltavano alte le voci di chi parlava di un possibile futuro e Giuseppe Di Vittorio, aprendo le braccia, rivendicava, anche per i deboli, il diritto alla speranza. O quando Giorgio Amendola, fra le strade dei Quartieri spagnoli o dei Vergini, si appellava alla coscienza del popolo per rivendicare una dignità negata. Operai, artigiani, giovani, donne, studenti e disoccupati lo ascoltavano, sapendo di non essere soli. Sotto il ponte della Sanità non c’era posto, in quei comizi, né per i franceschielli né per i masanielli scamiciati.

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