E' difficile per i sostenitori del “Sì” difendere questa riforma. Perciò si trincerano dietro argomenti non pertinenti e risibili (il suo effetto benefico sulla ripresa economica o, addirittura, la difesa dal terrorismo); oppure tanto generici da non essere contestati da nessuno: l’opportunità di modificare il bicameralismo paritario in primo luogo. E’ arduo giustificare il modo in cui il bicameralismo è stato modificato - in particolare la stravagante composizione del nuovo Senato - e le sue ragioni. In realtà gli obiettivi dichiarati - dare voce alle istituzioni territoriali, realizzare un notevole risparmio, rendere le istituzioni efficienti, semplificare il procedimento legislativo e accelerare i tempi - sono tutti falsi e non raggiungibili con una simile riforma.
La trasformazione del Senato in sede di rappresentanza degli interessi regionali e locali non è reale. I Comuni non hanno voce: nel nuovo Senato saranno presenti 21 sindaci (uno per Regione) eletti dai consiglieri regionali e non dai cittadini o dagli organi comunali, quindi senza legame alcuno con i territori e le loro esigenze. Nemmeno le istanze regionali sono rappresentate: il popolo della Regione non elegge i senatori: i consiglieri regionali si eleggono fra loro secondo logiche di partito; e i senatori (così eletti) seguiranno le stesse logiche anziché portare in Parlamento le istanze dei territori. La riforma stessa, incoerentemente, stabilisce che anche i senatori siano liberi da vincolo di mandato: ma i deputati si trovano in una posizione ben diversa dai senatori, rappresentando la nazione tutta e non “le istituzioni territoriali”.
Il risparmio è risibile: il Senato non viene abolito e restano tutte le spese generali (edifici, personale, riscaldamento, illuminazione, apparecchiature, ecc.). Efficienza e semplificazione sono una chimera. L’efficienza del futuro Senato è resa problematica dal contemporaneo esercizio della funzione di sindaco o di consigliere regionale, che certamente impegna e sembra difficilmente compatibile con i compiti numerosi e importanti che la nuova Costituzione gli conserva.
Soprattutto è falsa l’affermazione, continuamente ripetuta, che la legislazione spetti solo alla Camera e che quindi il bicameralismo paritario sia finito. In realtà rimane identico per leggi di grande importanza (leggi costituzionali, leggi sul referendum, sull’elezione dei senatori, sul recepimento delle norme dell’Unione europea, ecc.) e, comunque, il Senato può incidere su ogni legge. Ogni legge approvata dalla Camera è trasmessa al Senato che può proporre modifiche; e qui si aprono diverse possibilità e diversi procedimenti con maggioranze diverse anche in relazione alla materie, che potranno generare conflitti fra i due rami del Parlamento, previsti dal testo stesso che ne attribuisce la soluzione ai presidenti delle due Camere, d’accordo fra loro. E se l’accordo manca? Le difficoltà appaiono più acute, considerando l’eventualità di maggioranze diverse nei due rami del Parlamento che renderebbero difficile (se non impossibile) approvare le leggi bicamerali, e più lento il procedimento delle altre se il Senato chiedesse spesso l’esame dei testi approvati dalla Camera. La fine del bicameralismo paritario è solo un ingannevole slogan.
Il dato più grave è che il popolo sovrano (articolo 1 Costituzione) rimane senza voce. Per attenuare il distacco fra popolo e istituzioni sarebbero necessarie soluzioni che attenuano la distanza e favoriscono la partecipazione. E’accaduto il contrario. Anzichè far eleggere dai cittadini di ciascuna Regione i propri senatori che, in un Senato rappresentativo dei territori, dovrebbero portare le istanze locali a livello centrale, il Senato è eletto dai consiglieri regionali (che si eleggono fra loro!); le Provincie abolite continuano a funzionare senza gli organi che i cittadini eleggevano; la Camera, benché eletta, non è più ‘rappresentativa’ a causa di norme che, alterando l’esito del voto, consentono a una minoranza anche esigua di dominare le istituzioni senza limiti politici (le altre forze sono ridotte all’irrilevanza) né limiti giuridico-costituzionali.
Le stesse istituzioni di garanzia non sfuggono all’influenza della potente maggioranza. Una minoranza può prendere tutto: la soglia del 40% prevista dall’italicum per ottenere il premio in seggi è solo apparenza; se non la si raggiunge si passa al ballottaggio, per il quale nessuna soglia è prevista. Le due liste più votate vi sono ammesse qualunque percentuale abbiano ottenuto. Chi vince piglia tutto, anche con un risultato modesto (il 20%, o anche meno).
Così si altera anche la forma di governo di cui la riforma costituzionale non parla: grazie all’intreccio perverso con l’italicum, mediante il ballottaggio si arriva in modo traverso all’elezione diretta del premier. Ciascuna delle due liste partecipanti indica anche il premier designato: una competizione a due avrà necessariamente un vincitore, e si attribuirà al voto popolare il valore di un’investitura personale. Così il ballottaggio (fase finale dell’elezione dei membri della Camera) si trasforma in un’investitura di potere al governo e al suo Capo.
In assenza di limiti e controlli, senza contrappesi politici e istituzionali, quale sarà la sorte della democrazia costituzionale? Lo stesso Presidente della Repubblica, organo di garanzia ‘super partes’, sarà della maggioranza. La Costituzione esige un ampio consenso per la sua elezione: i due terzi nelle prime votazioni, poi la maggioranza assoluta dei componenti. La riforma la sostituisce con la maggioranza dei tre quinti dei “votanti”. Così si aumentano le garanzie, dicono i sostenitori. Un’altra falsità: il quorum non è più sui “componenti”, ma sui votanti! E nemmeno la Corte Costituzionale si salva. Due dei cinque giudici eletti dal Parlamento spettano ora al solo Senato: l’evidente divario di potere (a oltre seicento deputati tre giudici, a cento senatori due) denuncia subito l’intenzione del governo di mettere le mani sulla Corte, anche attraverso un Senato manipolabile.
Le riforme hanno un unico filo conduttore: gli interessi. La legge elettorale ipermaggioritaria evita che i troppi bisogni provenienti dalla società abbiano accesso alle istituzioni e impegnino risorse: recidendo i canali di trasmissione delle domande (i partiti), si eliminano le voci discordi e gli interessi di cui sono espressione rimangono senza rappresentanza. Togliendo ai cittadini il diritto di voto, gli interessi deboli o non conformi a quelli dominanti non hanno più voce.