Renzi lo ha detto chiaro: il referendum si vince a destra. E’ là che guarda la legge di bilancio.

Ancora sfugge la portata effettiva della manovra di bilancio del governo Renzi. Si era partiti da 24,5 miliardi di euro, poi il governo stesso ha annunciato che si trattava di 27 miliardi, ora pare ci si assesti attorno ai 26,3 miliardi. Sta di fatto che i testi dovevano giungere in parlamento il 20 ottobre, ma non ve ne è traccia e così sarà, pare, fino a lunedì 24.

Intanto gli organi della Ue appaiono meno comprensivi di come in un primo tempo sembravano essere Moscovici e lo stesso Juncker. Lo splafonamento del rapporto deficit/Pil al 2,3%, già pronto a salire in parlamento di un decimale, sembra avere irritato parecchio le vestali dell’austerità di Bruxelles, che già avevano “concesso” molta tolleranza al nostro paese. Ma ora né il terremoto, né i migranti - usati dal governo italiano come scudo anti Commissione europea, con una certa disinvoltura che sconfina nel cinismo – sembra commuoverli più di tanto. Vedremo se la Commissione invierà a Roma la richiesta (probabilmente giovedì 27 ottobre) di modifiche alla manovra, da attuarsi entro il 31 del mese.

Al di là dello scontro sui decimali è già però chiaro di che operazione si tratta. Chi si aspettava una pioggia multidirezionale di concessioni e prebende seppure in funzione elettorale – il referendum costituzionale incombe – è rimasto deluso. Del resto Renzi lo aveva detto chiaro: il referendum si vince a destra. E quindi è verso destra che ha guardato nello stilare la legge di bilancio. Essa viene accompagnata da un decreto legge in materia fiscale. Almeno questo è quello che finora è stato annunciato. Ed è proprio qui che si precisa il senso di classe della manovra. Ovvero questa va più giudicata per le coperture, quindi le previste entrate, che non dal lato delle uscite.

Ma è proprio su queste coperture che si appuntano tra l’altro le critiche degli organi della Ue. Non certo perché questi siano diventati improvvisamente sensibili alle condizioni di vita popolari, ma perché si tratta di misure straordinarie, una tantum, a fronte di interventi strutturali, quali le nuove incentivazioni alle aziende, nel quadro di Industria 4.0 e alle piccole e medie imprese. Infatti oltre il 50% delle coperture previste dal governo riguardano i supposti introiti provenienti dalla voluntary disclosure bis, ovvero il rientro di capitali illegalmente trafugati all’estero, con sanzioni ridotte estese almeno a tutto il 2015; la rottamazione delle cartelle di Equitalia, che viene soppressa nel decreto, e che si configurano – a detta anche del presidente della commissione bilancio della Camera, il pd Boccia – come un vero e proprio condono, quindi un premio e un invito all’evasione fiscale; la vendita delle frequenze Gsm. Tutte cose che si qualificano come una tantum - anche se i nostri governi amano ripeterle – e soprattutto incerte quanto a previsione di entrata.

Se sono voci insicure dal punto di vista contabile, non sono neutre politicamente. Intendono favorire, con la politica dei soliti incentivi, l’imprenditoria, soprattutto al nord, e i cosiddetti ceti medi più o meno impoveriti. Infatti si prevede anche la riduzione dell’Ires per le imprese dal 27,5% al 24%, mentre per misure perequative sull’Irpef che interessa le persone fisiche se ne parlerà a tempi indefiniti.

Il governo ha sbandierato le poste di bilancio messe per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego. Ma si tratta di cifre del tutto insufficienti. La impresentabile ministra Lorenzin canta vittoria perché il Fondo sanità è tornato a 113 miliardi, di cui uno però vincolato, fingendo di non ricordare che originariamente era previsto di 115. Per l’anticipo pensionistico si conferma l’innalzamento del requisito da 20 a 30 anni di contributi per i disoccupati, disabili o con disabili a carico, e di 35 anni per i lavoratori attivi, anche se in mansioni usuranti.

I poveri, di cui l’Istat ha certificato recentemente la continua crescita, dovranno invece sperare – per vedere incrementare il fondo ad essi destinato di 500 milioni - o nella spending review, giudicata però un fallimento dalla stessa Bankitalia, oppure in non meglio precisati “risparmi istituzionali”. Forse quelli millantanti da Renzi come riduzione sulle spese per il nuovo Senato, che, referendum a parte, comunque sono stimabili solo in 49 milioni annui secondo la Ragioneria dello Stato. Non in 500. Insomma la finanziaria di classe di Renzi non poteva rinunciare neppure a mediocri imbrogli.

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