Ceta: come era successo al suo fratello maggiore Ttip, il Trattato di liberalizzazione commerciale tra Usa e Ue in stand by dopo l’elezione di Donald Trump, questo ultratecnico, complesso ma potenzialmente dannoso trattato di liberalizzazione commerciale tra Europa e Canada ha avuto le sue giornate di visibilità mediatica nel momento in cui è toccato al Parlamento europeo esaminarlo e approvarlo il 15 febbraio scorso. “Questo accordo commerciale è stato oggetto di un esame parlamentare approfondito che riflette il crescente interesse dei cittadini nella politica commerciale. Il dibattito intenso sul Ceta lungo tutto il negoziato testimonia il carattere democratico del processo decisionale europeo”, ha detto il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker subito dopo il voto (http://europa.eu/rapid/press-release_IP-17-270_en.htm).

Peccato che, però, i parlamentari europei non abbiano letto il testo nei sei anni del negoziato, non abbiano potuto commentarlo o emendarlo in corso d’opera, e che al suo frettoloso arrivo nell’emiciclo, cioè poche settimane prima del suo affrettato varo, non abbiano potuto che prenderne atto e schierarsi con posizioni più politiciste che di merito.

I neoliberisti lo hanno approvato facendone, addirittura, uno strumento di opposizione a Trump. Ma il trattato permetterà ora a oltre 40mila grandi aziende statunitensi di ottenere, attraverso le proprie sedi canadesi, di esportare a dazio zero e condizioni agevolate nel mercato europeo anche se Trump – come ha annunciato – dovesse restringere l’accesso di molti nostri prodotti d’eccellenza, campioni nelle esportazioni: dai formaggi di alto livello alla pasta, alla storica Vespa.

I socialisti si sono spaccati. La sinistra e i verdi hanno tenuto duro nonostante qualche dubbio dell’ultima ora dei verdi tedeschi. Gli euroscettici ne hanno fatto la cartina di tornasole di quanto i conti sulla democrazia nel vecchio continente non tornino, visto che milioni di cittadini, economisti, esperti, associazioni, sindacati, in tutti gli Stati membri, hanno preso posizione contro il Ceta.

Ora spetta ai parlamenti nazionali ratificarlo, quando però la maggior parte di esso sarà già entrato in vigore. Sì, perché nonostante il Ceta passi ora all’esame di ben 38 assemblee nazionali e regionali, per oltre l’80% delle sue previsioni sarà già operativo. Per quanto riguarda dazi e dogane, siamo a tassi addirittura superiori: quando l’accordo entrerà in vigore, l’Ue e il Canada elimineranno subito rispettivamente il 92,2% e il 90,9% delle loro tariffe agricole, taglio che salirà rispettivamente al 93,8% e 91,7%, dopo un periodo di transizione di sette anni. E parliamo del settore più protetto. La media del totale delle linee tariffarie eliminate, infatti, arriva al 99%, che per i paesi membri si traduce in una perdita secca e immediata di entrate da dazi non riscossi pari a 311 milioni di euro annui.

Per quanto riguarda i servizi invece tutto è liberalizzato, tranne ciò che è esplicitamente protetto nelle liste negative allegate. L’Italia, abbastanza suggestivamente, ha deciso di proteggere al livello attuale, includendoli nell’allegato 1: la distribuzione; nei servizi alle imprese, il testing tecnico e i servizi di analisi, i servizi di sicurezza, i servizi scientifici e di controllo dei livelli tecnici relativi; per le professioni, i servizi legali, di accounting e prenotazione, di auditing, di consulenza fiscale, di architettura, quelli medici e psicologici, ma non quelli ingegneristici nè quelli infermieristici, fisioterapici e paramedici; nel turismo, le guide turistiche; nei trasporti, il solo trasporto marittimo e i servizi ausiliari connessi; per l’energia, nulla; nella finanza, solo le assicurazioni; nei cosiddetti “non servizi”, i media registrati; nulla rispetto alla sanità; nell’istruzione, la sola istruzione universitaria.

L’Italia ha deciso di riservarsi il diritto di regolare ulteriormente, listandoli nell’allegato 2: i servizi di collocamento; i servizi di trasporto stradali; i servizi di assicurazione e bancari per il settore dei servizi finanziari; la pesca e l’acquacoltura; i servizi educativi finanziati dai privati; fortunatamente i servizi sociali. Il tutto, però, senza alcuna adeguata discussione pubblica e senza che il Parlamento italiano abbia potuto esprimere a riguardo nemmeno una virgola di incisivo e rilevante.

La palla ora passa di nuovo a noi, e in un periodo dai toni preelettorali sarà bene, per chi vorrà essere rieletto, farci capire in quale Europa pensa di farci vivere: in quella della demagogia economicista del Ceta, o in un progetto politico più inclusivo e più convincente di così?

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