Referendum e Carta dei diritti per una rinnovata cultura della dignità del lavoro.

Da quando la Corte Costituzionale ha ammesso due quesiti referendari, bocciando quello sull’articolo 18, si parla di voucher come se fossero il vero e unico problema del mondo del lavoro. Dalla loro successiva abolizione per decreto, si è poi scatenato il panico per trovare una modalità che permettesse la flessibilità del lavoro, pena il “ritorno al nero e all’illegalità”. Non vorrei perdere tempo sull’ipocrisia di chi finge di non conoscere le svariate forme di precarietà previste dalla legge, ancora peggio delle associazioni datoriali e dei loro associati che fingono di non conoscere i contratti nazionali che loro stessi hanno sottoscritto.

Mi interessa ragionare su un clima culturale che dà per assodato che il lavoro sia un mero accessorio, pagato solo in ragione dell’andamento economico dell’azienda, e non debba essere correlato ad un elemento di dignità come previsto dal dettato costituzionale. Drammatico è che questi ragionamenti siano penetrati tra gli stessi lavoratori, ancora peggio nel mondo giovanile. Con alcuni distinguo.

Per un anno, nell’assoluta disattenzione in primis della politica e della stampa, la più grande organizzazione di rappresentanza ha raccolto oltre tre milioni di firme e depositato un progetto di legge, la Carta universale dei diritti, a supporto della quale sono stati presentati tre quesiti referendari. Il punto, drammaticamente, è proprio questo. L’abolizione di uno solo degli strumenti di precarietà, quello più abusato, ma non l’unico, che non solo non retribuiva adeguatamente la prestazione oraria ma non garantiva alcun diritto al lavoratore, non risolve il reale problema del lavoro che non c’è.

La buona occupazione, intesa come stabilità del lavoro e dignità del lavoratore, e lo sviluppo che ne derivano, sono il reale problema di questo paese. Per giustificare la crisi, che ormai imperversa dal 2007 e che solo parzialmente si sta recuperando, non si può neppure invocare l’andamento generale dell’economia, poiché in altri paesi dell’area euro, dalla crisi in poi, occupazione e pil sono in recupero molto più che in Italia. Questo a dimostrare che lo sviluppo non si ottiene con la riduzione dei diritti del lavoro.

Lo confermano i dati sull’occupazione, che negli anni del jobs act hanno mostrato una sostanziale conversione delle forme di lavoro, un aumento spropositato. Solo in Lombardia fra il 2004 e il 2016 la disoccupazione sale dal 4,1% al 7,4%. La situazione sta migliorando ultimamente, ma siamo ancora ben lontani dagli anni pre-crisi. La disoccupazione giovanile sale negli stessi anni dal 24.1% al 38,6%. L’età media dei lavoratori a voucher era di 60 anni nel 2008 per passare a 35 anni nel 2015, a dimostrare quanto fossero strutturali per la precarietà. Altro elemento rilevante: il costo di un’ora di lavoro a voucher, pari a 10 euro, è solo di poco inferiore al costo di un ora contrattuale, pari a 12.9 euro. Quindi di cosa si sta realmente parlando? Di un sistema che sostanzialmente toglie dignità al lavoratore, e sottrae diritti rendendolo debole e alla mercé delle esigenze del mercato.

In fondo anche il tema appalti è solo apparentemente complicato: era stata introdotta una norma astrusa per rendere praticamente impossibile per il lavoratore ottenere giustizia. Il problema è che gli stessi lavoratori danno per assodato un meccanismo che li delegittima: i diritti sono solo accessori e non indispensabili, e garantirsi una retribuzione dignitosa, certezza di orari, diritto alla malattia o alla maternità non sono più dovuti.

Ancora peggio pensare che i giovani che entrano nel mondo del lavoro accettino passivamente queste condizioni che intaccano la loro progettualità di vita. Credo che non basti pensare che il sindacato non ha saputo parlare ai lavoratori. Almeno i nostri iscritti li troviamo sensibili a questi temi, e i giovani che incontriamo nelle università capiscono bene di cosa si sta parlando.

Forse il nodo è culturale, abbiamo cresciuto i nostri figli senza trasmettere loro il senso di tante dure battaglie di conquista dei diritti che loro ereditano senza conoscerne il prezzo, e il modello di istruzione si spinge verso un nozionismo che non li fa crescere come cittadini, con poca voglia di partecipare alla vita politica e democratica. Ma qualche segnale di inversione di tendenza c’è: dobbiamo saperlo cogliere e partire dai luoghi di discussione e di dibattito, e far crescere un clima di dignità del lavoro.

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