A più o meno vent’anni dalla sua fondazione, la Rete sindacale europea (Trade Union Network Europe, Tune, in inglese) dimostra tutta la sua vitalità, come confermato, nella riunione del 27 e 28 settembre scorsi presso il gruppo Gue-Ngl al Parlamento Europeo di Bruxelles, dall’ampia partecipazione (circa un centinaio di sindacaliste e sindacalisti da una ventina di paesi europei) e dal significativo ringiovanimento, grazie alla presenza, soprattutto, di giovani quadri dalla Spagna e della Federazione Europea dei Trasporti. Come noto, il Tune è la continuazione del Forum Europa Sociale fondato, appunto verso la fine dello scorso millennio, dagli italiani di Alternativa sindacale Cgil e dai sindacalisti tedeschi che, in rotta con la socialdemocrazia, avrebbero dato vita all’aggregazione politica Wasp in Germania occidentale, cofondatrice della Die Linke con la Pds orientale.

Ma la vitalità del Tune non è solo legata alla quantità e qualità della partecipazione. Si riflette molto bene nell’insieme dei temi che sono stati discussi, in un’intensa due giorni di lavoro. Impossibile darne conto in maniera esaustiva: dalla precarizzazione del mercato del lavoro (con una relazione, tra gli altri, di Simonetta Ponzi, della Cgil), al pilastro sociale europeo; da un aggiornamento su alcuni dossier in discussione tra Parlamento Europeo e Commissione (direttiva distacchi, trasporto stradale, bilanciamento tempi di vita e di lavoro) alle questioni dell’attacco al diritto di sciopero e alla contrattazione collettiva; alle esperienze di organizzazione e di lotta alla Amazon tedesca e alla Fiat-Fca di Kragujevac in Serbia.

Tutti questi temi hanno alcuni denominatori comuni, sottolineati sia dai relatori che dagli interventi nel dibattito delle varie sessioni: in tempi e modi diversi, la sostanza dell’attacco ai diritti dei lavoratori e allo stato sociale è analoga in tutti i paesi. Le politiche dell’austerità e del neoliberismo, avviate già negli anni ‘80, sono state ulteriormente aggravate durante l’ultimo decennio della “crisi globale”, accentuando la precarizzazione del lavoro, le diseguaglianze, la povertà, la riduzione delle protezioni sociali.

La risposta del movimento sindacale è stata, da un lato, troppo confinata sul terreno nazionale, dall’altro, priva – sostanzialmente ovunque, con rare eccezioni – di un riferimento e di una rappresentanza politica capace e intenzionata a proporre politiche economico-sociali alternative all’impostazione iperliberista di Commissione e Consiglio europeo. La Ces, il sindacato europeo, non si è finora dimostrata all’altezza della sfida, anche se non sono state sottaciute le responsabilità di sindacati nazionali dei paesi “più forti”, che spesso hanno accettato politiche di contenimento salariale o logiche di difesa degli “interessi nazionali” che certo non hanno aiutato una difesa e controffensiva comune a livello europeo.

Per la verità, l’assemblea è rimasta piuttosto delusa per la posizione, a dir poco rinunciataria, espressa dalla segretaria della Ces, Esther Lynch, sul pilastro sociale europeo. Alle giuste e condivisibili critiche mosse al documento che l’Unione si appresta a varare il 17 novembre a Goteborg, non corrisponde, infatti, alcuna proposta di mobilitazione sindacale, che marchi con chiarezza il dissenso e sostenga le proposte alternative presentate.

Nell’insieme di un incontro denso e ricco, vale forse la pena ricordare alcuni dei contributi, a mio avviso, più interessanti. Jonathan Hayward, del sindacato britannico Unite (servizi pubblici) ha ricostruito con precisione l’ormai quasi quarantennio, da Tatcher in poi, di meticoloso attacco al diritto di sciopero in Gran Bretagna. Un percorso che non si è certamente fermato durante l’era Blair e che rischia di aggravarsi ulteriormente con la Brexit.

Heiner Reimann, dell’Ig Metall tedesca, ha raccontato il tortuoso percorso di organizzazione nel principale sito Amazon in Germania (3.800 dipendenti diretti), dove, tra alti e bassi nel corso di circa 10 anni, si è giunti a consolidare una presenza sindacale con oltre un migliaio di iscritti.
Infine, l’esperienza forse più interessante e promettente è quella della Fiat di Kragujevac, dove, tra giugno e luglio, una mobilitazione massiccia – che ha saputo unire la maggior parte dei lavoratori nonostante i pesanti ricatti divisivi dell’azienda e l’atteggiamento negativo dello stesso governo serbo, che detiene il 33% del capitale dell’impresa – alla fine sindacato e lavoratori hanno spuntato aumenti salariali intorno la 10%, la difesa dell’occupazione, una migliore organizzazione del lavoro e una migliore gestione delle pause e dei tempi di lavoro. La lotta paga.

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