Le proteste degli studenti dopo il tentativo di “riformare” il sistema pensionistico sono state affrontate dalle forze dell’ordine con il pugno di ferro, provocando decine di morti

Sono ormai passati quasi quarant’anni da quel 19 luglio 1979, quando la rivoluzione sandinista abbatté la dittatura di Somoza e venne poi proclamato presidente del Nicaragua un giovane di 39 anni che si chiamava Daniel Ortega. Il quale, con degli intervalli durante i quali il paese è stato in mano alla destra, è di nuovo al potere, esattamente dal 2007, ma poco ha ormai in comune con quel comandante che riuscì a conciliare la rivoluzione con la democrazia e la pluralità delle voci.

Già da tempo il dissenso di chi lo accusa di aver accentrato tutti i mezzi di comunicazione e di aver fatto della corruzione un sistema di governo si leva da più parti. Dalla destra ovviamente, ma anche dai tanti ex compagni e militanti di partito, il Fsln, Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale, che da tempo non ne condividono l’autoritarismo.

Ora che le proteste degli studenti dopo il tentativo di “riformare” il sistema pensionistico, vera e propria ossessione dei governanti di ogni genere, sono state affrontate dalle forze dell’ordine con il pugno di ferro provocando decine di morti, il “de profundis” per il presidente sembra un orizzonte scontato.

Ma cerchiamo di inquadrare questo scenario in quello più complesso del paese e dello stesso continente latinoamericano, dove le varie esperienze progressiste sono ormai finite quasi ovunque, vedi Brasile e Argentina, o in grave crisi, come nel caso del Venezuela, con gli Stati Uniti di Trump pronti ad approfittare della situazione per interferire. Come sempre hanno fatto.

Partiamo dal presupposto che la politica del governo, attento alle esigenze delle fasce più deboli della popolazione e all’equilibrio con le due istanze più forti del paese, ovvero la Cosep, la Confindustria nicaraguense, e le alte gerarchie ecclesiastiche, ha consentito per alcuni anni il mantenimento di un equilibrio politico e sociale che ha fatto del Nicaragua un paese socialmente tranquillo, senza le temute “pandillas”, a differenza di quanto non succeda in Salvador, Guatemala o Honduras. Aggiungiamo a questo quadro la crescita economica che ha permesso al paese, sempre tra i più poveri dell’area, di respirare in questa fase.

Ma lo strapotere della coppia Ortega-Murillo, la sua stravagante quanto costosa moglie per le sue idee – ha fatto installare 300 alberi della vita del costo di 25mila dollari l’uno abbattuti poi dai manifestanti – e l’idea appunto di rivedere il sistema pensionistico che punta ad aumentare la quota contributiva dei datori di lavoro e dei lavoratori, e togliere denaro ai pensionati, hanno gettato benzina sul fuoco. Il dissenso arriva anche dalla Camera delle industrie del Nicaragua, tanto che almeno per il momento l’attuazione della riforma previdenziale è stata fermata.

Quel compromesso del quale abbiamo parlato prima rischia di venir meno anche perché, per realizzarlo, è stato pagato un prezzo molto alto, come dice l’analista Lòpez Oliva in una recente intervista pubblicata da “il manifesto”. A livello continentale - in un contesto di grave arretramento delle esperienze progressiste - Ortega incassa ovviamente la solidarietà di Cuba, del Venezuela di Maduro alle prese con problemi non meno gravi di quelli del Nicaragua, dell’Ecuador e della Bolivia, che hanno rappresentato il nocciolo duro dell’Alleanza Bolivariana. Ma bene farebbe Ortega a mettersi da parte, consentendo al suo partito di rinnovarsi, se questo è ancora possibile. “Durante gli ultimi undici anni Ortega ha cooptato tutti i poteri del governo – dice Lòpez Oliva - mettendo le radici di un potere personale e familiare. Insomma è ben lontano dal leader rivoluzionario marxista sandinista che aveva il sostegno dei lavoratori, dei movimenti sociali progressisti e degli intellettuali”.

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