Cambogia: la trappola di povertà e sfruttamento - di Vittorio Bonanni

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La Cambogia è uno dei paesi più poveri al mondo, e con un passato drammatico dal quale tenta faticosamente di uscire. Ex protettorato francese, coinvolta nel conflitto vietnamita, fatta oggetto di cruenti bombardamenti americani che provocarono fino al 1975 tra i 600mila e gli 800mila morti, questa affascinante nazione, nota in tutto il mondo per gli splendidi templi di Angkor, ha poi conosciuto il terribile regime dei khmer rossi, il cui furore ideologico provocò tra un milione e mezzo e due milioni di morti.

Soltanto nel 1979 i cambogiani si liberarono da quell’incubo grazie all’intervento vietnamita, e dal 1984, sia pure in un regime almeno apparentemente democratico, il potere è nelle mani del primo ministro Hun Sen del Partito popolare, da giovane guerrigliero dei khmer rossi e poi passato nella fila dei vietnamiti.

Paese poverissimo, con un’aspettativa di vita di 63 anni, la Cambogia sta conoscendo uno sviluppo frenetico e diseguale, all’interno del quale vengono penalizzate le fasce più povere delle popolazione. Bassi salari, mancanza di lavoro e di abitazioni, e gravi violazioni dei diritti umani, sono gli ingredienti principali dell’attuale scenario khmer. Per esempio nella multinazionale H&M, che produce abiti ed ha industrie sparse in tutto il mondo, i lavoratori cambogiani guadagnano meno della metà di quello che può essere definito un salario dignitoso. Particolarmente penalizzate sono le donne che, a causa delle condizioni estreme alle quali sono costrette a lavorare ed avendo l’onere aggiuntivo del lavoro domestico, spesso svengono sul posto di lavoro.

L’aumento dei salari minimi è uno dei temi centrali che vede, da un lato, su posizioni vicine il governo e gli imprenditori, in particolare dell’industria dell’abbigliamento e delle calzature, che propongono rispettivamente 162,67 dollari e 161 dollari, e, dall’altro, i sindacati che ne rivendicano 176,25. Salari bassi comportano poi una bassa produttività rispetto a quanto avviene in altri paesi asiatici quali Filippine, Thailandia e Indonesia. Argomento utilizzato appunto dai sindacati nel corso delle trattative.

Drammatica poi la situazione nel comparto agricolo. Come documentava recentemente un servizio televisivo, una famiglia di agricoltori cambogiani, ridotta sul lastrico dalla siccità, ha chiesto un prestito di 1.500 dollari per restituire il quale è costretta a lavorare tutta la giornata in una fornace, per 8 dollari ogni 10.000 mattoni prodotti. Una vera e propria forma di schiavitù alla quale è quasi impossibile sottrarsi, che ha costretto questa povera gente ad abbandonare il lavoro tradizionale e a rinunciare al diritto all’istruzione dei giovani, malgrado le leggi cambogiane vietino il lavoro ai ragazzi con età inferiore ai 15 anni.

Non va meglio sul fronte complessivo dei diritti umani e sociali. La scorsa estate un provvedimento di grazia firmato dal re ha consentito a Tep Vanny, leader del movimento per il diritto alla casa, di tornare libera dopo 700 giorni di carcere. La condanna era stata comminata nel 2013 in seguito ad una manifestazione organizzata davanti l’abitazione di Hun Sen per chiedere il rilascio di un’attivista della comunità del lago Boeung Kak, sotto sgombero per far spazio ad abitazioni di lusso e centri commerciali realizzati soprattutto nella capitale Phnom Penh.

Come ha denunciato più volte Amnesty International, “in tutto il paese l’accaparramento dei terreni, le concessioni fondiarie garantite a privati per uso agro-industriale e i grandi progetti di sviluppo hanno continuato ad avere effetto sul diritto a un alloggio adeguato per le comunità.” Come è facile immaginare la conseguenza di questo stato di cose è un disagio sociale crescente.

Malgrado l’apparente assetto democratico che prevede regolari elezioni, esiste anche una limitazione forte delle libertà politiche e di espressione. Lo scorso anno, in vista delle elezioni generali, modifiche alla legge sui partiti politici hanno consentito al ministero dell’interno e ai tribunali di esercitare più forti poteri, con l’intento, appunto, di limitare l’agibilità democratica.

Lo scorso settembre lo storico quotidiano in lingua inglese The Cambodia Daily è stato costretto a chiudere, dopo che le autorità avevano imposto ai suoi editori di pagare 6,3 milioni di dollari di imposte. Anche Radio Free Asia, emittente antigovernativa finanziata da privati statunitensi, soffre dell’ambiente repressivo. Con un’opposizione politica schiacciata dall’onnipresenza del partito di Hun Sen, è difficile pensare ad un diverso futuro per la Cambogia, in un contesto dove la crescita di un’economia controllata prevalentemente dai cinesi certamente non basta a promuovere un soddisfacente sviluppo sociale.

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