La Resistenza curda dopo il “tradimento” americano - di Sergio Sinigaglia

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Intervista a Karim Franceschi, combattente internazionalista delle Ypg.  

Karim Franceschi (1989) è nato a Casablanca da padre ex partigiano e madre marocchina. Vive a Senigallia. E’ attivista del centro sociale Arvultura. Nel 2014, partito per Kobane in un progetto umanitario, ha deciso di entrare nella Resistenza. Su quella esperienza, durata un anno, ha scritto “Il combattente” (Bur). Nel 2016 ha deciso di tornare e ha contribuito alla caduta di Raqqa come comandante di una brigata internazionale da lui fondata. In questa occasione è rimasto gravemente ferito. Su questa seconda esperienza ha scritto “Non morirò stanotte” (Bur).

Che implicazioni sta avendo la decisione di Trump di smobilitare le truppe in appoggio alle forze curde?
“(…) La verità è che l’annuncio di Trump è avvenuto due giorni dopo che il presidente turco Erdogan, in sostanza un dittatore, ha comunicato, insieme al “Libero esercito siriano”, a Nour al din al Zinki, (…) l’intenzione di lanciare un’offensiva tesa a colpire la zona del Rojava, controllata dalle Ypg. Questa operazione in larga scala aveva come primo obbiettivo Manbij, liberata tra il 2015 e il 2016 dalle unità partigiane curde, con un prezzo di sangue enorme, più di mille morti tra compagni e compagne, i più dei quali si sono sacrificati per salvare i civili tenuti in ostaggio dall’Isis. Bene, due giorni dopo Erdogan, Trump esce con la dichiarazione che entro un mese avrebbe ritirato le truppe americane. Le reazioni sia all’interno dell’amministrazione americana che dell’opinione pubblica statunitense sono state immediate. Anche chi, nei vertici governativi, non condivide l’ideologia dell’Ypg, non può non rispettare lo sforzo bellico della resistenza anti-jihadista, nonché le virtù che la caratterizzano. E non parlo solo dei curdi ma anche del popolo rivoluzionario e democratico della Siria federale del Nord. (…) Trump si è trovato con le spalle al muro, ha dovuto fare parzialmente retromarcia (…). In passato hanno tradito più volte, ma mai come in questo caso lasciando solo un alleato che è stato così valoroso, coerente e leale verso gli obiettivi prefissati. Gli Usa dal 2011 hanno cercato un gruppo ribelle che innanzitutto abbattesse Assad, hanno armato e finanziato i jihadisti, praticamente creato e costruito l’Isis. Poi, dal 2014 hanno provato a individuare chi potesse contrastarne l’avanzata. Nel 2015 i curdi a Kobane, con la loro resistenza, si sono dimostrati estremamente valorosi. Da qui la nascita di una coalizione a guida americana e la presenza di altri paesi europei, dove però i vertici statunitensi hanno provato a privilegiare i gruppi moderati molto poco affidabili (…). Quindi gli americani, se volevano combattere realmente lo jihadismo, non avevano alternative. Si sono accorti che l’Ypg era fondamentale. Però, non hanno mai considerato i curdi veri alleati. (…) All’interno dell’amministrazione ci sono sempre state due anime: il dipartimento della Difesa che, privilegiando l’obiettivo militare, lavorava con i curdi, mentre il dipartimento di Stato ha continuato a mettere il bastone tra le ruote alla Difesa, ha cercato in tutti i modi di mantenere la relazione strategica con la Turchia. Nel momento in cui i resistenti vincevano sul campo l’Isis, si avvicinava l’ora delle resa dei conti e del tradimento americano. Sapevamo che sarebbe accaduto. Ma il tempismo tra l’annuncio di Trump e l’inizio dell’offensiva turca non è casuale. Infatti, i colloqui di pace tra Saleh Muslim dell’Unione democratica curdo siriana e i rappresentanti dei Cantoni del Rojava con Assad stavano andando avanti, e questo per gli Usa e i turchi era l’aspetto più pericoloso perché avrebbero portato alla pace. (…)”.

Questa relazione che si è creata con Assad è legata al nuovo scenario che si sta delineando conseguente alla decisione di Trump?
“No. I colloqui di pace con Assad erano stati avviati mesi prima dell’annuncio americano e prima dell’invasione di Afrin. Com’è noto, la Siria federale del Nord non vuole diventare uno Stato, non è questo l’obbiettivo della rivoluzione. Lo scopo è avere un riconoscimento dell’autonomia politica di quel territorio per sviluppare il progetto del confederalismo democratico. Quindi la pace con Assad è necessaria; con la sconfitta sul campo dell’Isis inizia la vera sfida. Ovvero, non solo la ricostruzione della Siria devastata dalla guerra, ma anche la ricucitura del tessuto sociale e politico. Questi erano i termini del confronto con il regime siriano e si era arrivati ad una “road map” con gli inevitabili passi indietro e in avanti come in qualunque trattativa di pace. Ma si era a buon punto, tanto da preoccupare sia gli Usa che la Turchia. Se si arrivasse ad un accordo reale Erdogan non avrebbe più nessuna possibilità di attaccare quel territorio, perché si scontrerebbe direttamente con le forze siriane e i suoi alleati, oltre l’Ypg. In questo scenario è giunto l’annuncio di Trump, con il Rojava servito su un piatto d’argento alla Turchia. Naturalmente questo è stato respinto categoricamente dall’Ypg, che ha invece proposto una zona di sicurezza a dieci chilometri dal confine turco dove ci sono le città principali, sorvegliata da truppe internazionali. Questa è l’ultima presa di posizione delle forze partigiane curde. (…) Ritengo che gli americani abbiamo rallentato il ritiro non per aiutare i curdi, ma per la presenza siriana, e perché il capo di Hay’at Tahir al – Sham ha dichiarato che combattere a fianco di un esercito di un paese secolarizzato contro forze militari atee, è peccato. Quindi ha vietato a tutti gli affiliati di partecipare a questa operazione. Ciò ha scatenato una guerra devastante con migliaia di morti tra questo gruppo jihadista e Nour al din al Zinki, nonché le altre formazioni fondamentaliste. Di fronte a questa guerra interna, la Turchia non poteva di certo lanciare l’offensiva prefissata, perché questi suoi alleati non erano in grado di partecipare. Afrin dimostra che Erdogan non impiega la propria fanteria, eccetto alcune forze selezionate, ma utilizza principalmente l’artiglieria o mezzi corazzati. Per le grandi operazioni fa conto sulle forze jihadiste, perché sono dei veterani in combattimento e sono noti per avere la fanteria migliore del mondo. Inoltre, in questo modo, evita il rischio di veder in patria una sfilata di bare, con le relative conseguenze in termini di consenso. In conclusione, gli americani stanno rallentando per dare modo ai turchi di riorganizzare le proprie forze e impedire che l’esercito di Assad occupi le zone lasciate, mandando all’aria i piani di Erdogan”.

Pensi che questa alleanza momentanea con Assad possa diventare un abbraccio mortale per le forze curde?
“E’ difficile dirlo. Credo dipenda molto dal popolo siriano, composto non solo dai curdi, ma da arabi, cristiani, assiri, armeni, da tante minoranze. Penso che non si possa fare a meno di trovare un accordo con Assad perché quello è e rimarrà territorio siriano. (…) Sarebbe interessante se quella autonomia fosse riconosciuta nelle sue componenti, potesse crescere e prosperare, diventando non solo un modello per il resto della Siria, ma anche per tutto il Medio Oriente. Non a caso c’è stato un vertice dei paesi arabi in cui è stata ventilata la proposta di formare una coalizione in sostegno ai curdi, perché le mire turche vengono viste come un problema serio per l’equilibrio di tutta la regione. Con molte difficoltà si sta cercando di ricucire i rapporti fra il regime siriano e Riad, nonché con le altre monarchie e gli altri paesi. E’ una dinamica interessante. Certamente la relazione con Assad ha il suo rischio, ma credo che la rivoluzione sia abbastanza forte per non essere assorbita dalle ingerenze di un apparato centralista che, tra l’altro, neanche esiste più. Penso che la stessa amministrazione siriana veda con favore la ricostruzione della propria struttura statale, perché è uno Stato che ha fallito. Lo dimostrano tutti questi anni di guerra civile. E in questo senso il progetto del Rojava può essere una risorsa preziosa per un processo virtuoso”.

In questa situazione come giudichi il ruolo della Russia?
“Credo stia giocando un pessimo ruolo, una partita molto sporca, nei confronti del popolo siriano. Attraverso l’alta influenza che ha in Siria, ha iniziato a ottenere concessioni importanti da parte di Erdogan, stretto relazioni commerciali di grande spessore, in concomitanza con l’aggressività turca. Ciò mi porta a pensare che la Russia stia remando contro anche lo stesso Assad, cioè il suo principale alleato. Un tempo Putin aveva come obiettivo principale in Siria i porti del Mediterraneo, ma in questo momento sembra stia puntando a un posizionamento geopolitico ed economico a suo favore sfruttando la guerra civile siriana. Nell’ultimo periodo ha rafforzato i rapporti con la Turchia, e non a caso Erdogan si sta relazionando sempre più con Putin per problemi legati alla Siria. Anche l’accordo sulla zona demilitarizzata di Idlib non ha aiutato Assad, che avrebbe tutto l’interesse a liberare la città. Perché i jihadisti che si stanno riorganizzando nella zona, dopo aver invaso Afrin, stanno progettando di espandersi in tutto il resto del Rojava e della Siria liberata dalla forze rivoluzionarie. Una dinamica che può riaccendere il conflitto, facendolo arrivare a vette mai raggiunte prima. Queste manovre di Putin hanno impedito l’attacco siriano a quelle forze jihadiste che, come abbiamo visto, stanno combattendo tra loro. La Russia ha scelto di creare un asse privilegiato con Erdogan”.

Ringraziamo REDS. La versione integrale dell’intervista è pubblicata sul numero 2/2019)

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