In Algeria la mobilitazione va avanti da un anno, per chiedere una vera svolta - di Vittorio Bonanni

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Algeria in fermento da un anno. Proprio un anno fa, esattamente il 22 febbraio 2019, la popolazione del paese più grande dell’Africa scese in piazza per dire definitivamente “no” al partito che governa il paese dai tempi della rivoluzione anticoloniale, il Fronte di liberazione nazionale. La vittoria elettorale il 12 dicembre scorso di Abdelmadjid Tebboune, che aveva preso il posto del contestatissimo e anziano Abdelaziz Bouteflika dopo l’intervento del potente capo di stato maggiore dell’esercito Ahmed Gaid Salah, era però avvenuta in un appuntamento elettorale ampiamente disertato da quei 24 milioni di algerini e algerine iscritti nei registri elettorali.

Il 12 dicembre scorso le strade di Algeri e delle altre principali città dell’Algeria sono state invase da una marea umana senza precedenti – denominata Hirak come ci ricorda Luigi Manfra, responsabile dei progetti economico-ambientali della Sapienza a Roma - la maggioranza della quale, quasi il 60%, ha boicottato il voto e avrebbe voluto più tempo per poter meglio fronteggiare il vecchio sistema. Una mobilitazione di massa che non avveniva dai tempi dell’indipendenza del 1962, guidata allora da quel Fronte di liberazione nazionale e da un leader come Bouteflika, costretto come detto a ritirarsi dalla competizione elettorale.

Il problema ulteriore riguarda il fatto che nessuno degli altri quattro candidati godeva dei favori della folla, la quale li considerava tutti prodotti del regime. A complicare la situazione è arrivata, il 23 dicembre, la morte di Gaid Salah.

Difficile prevedere ora quali sviluppi possa avere questo scenario. Prima del voto, per placare la rabbia della popolazione, erano stati arrestati due ex primi ministri e il fratello di Bouteflika, ma questi provvedimenti non sono serviti a nulla. Secondo lo storico dell’università Phantéon-Sorbonne, Pierre Vermeren, il regime, malgrado le proteste, può ancora contare sul sostegno del 30-40% della popolazione, e soprattutto dei membri del Fln e delle loro famiglie.

Tuttavia il governo sarà costretto a fare delle concessioni, come l’aumento dei salari e la liberazione dei prigionieri politici. Infatti durante le manifestazioni di protesta sono stati effettuati arresti indiscriminati - secondo le organizzazioni per i diritti umani circa 200 - tra gli studenti che chiedevano un’“Algeria libera e democratica”. Studenti che in carcere hanno cominciato a fare uno sciopero della fame. Insomma condizioni necessarie, anche se non sufficienti, per dare una svolta alla storia di un paese tormentato.

A questo proposito, in occasione della mobilitazione è tornato a galla il terribile periodo della guerra civile, che aveva visto da un lato i Gia (Gruppi islamici armati), nati dopo l’annullamento nel 1991 del voto che aveva visto vittorioso il Fis (Fronte islamico di salvezza), e dall’altro l‘esercito algerino. Entrambi i protagonisti del conflitto hanno provocato oltre 200mila morti e 8mila scomparsi, dal 1991 al 2002.

Secondo Omar Belhouchet, ex direttore del quotidiano algerino El Watan, “nel segno della riconciliazione il governo ha occultato crimini di guerra”. Ma anche in questo caso la mobilitazione della società intende fare chiarezza, perché “gli algerini sono ormai un popolo libero pronto a far luce su quel periodo”, mettendo così in discussione la ‘Carta per la pace e la riconciliazione nazionale’ che prevede l’amnistia per gli ex combattenti, oltre a risarcimenti per le famiglie delle persone scomparse e per quelle dei combattenti morti. Questa legge, approvata con un referendum nel 2005, ha però anche imposto il silenzio sul conflitto, generando scontento nei confronti della classe politica che l’ha promossa, e che ha continuato a guidare il paese fino all’inizio di quest’anno.

Anche in questo caso dunque il movimento nato lo scorso anno sta giocando un importante ruolo nel fare luce su quanto accadde realmente in quel terribile periodo della storia algerina. È importante altresì sottolineare come anche in questo caso, come già successo per esempio in Cile, in Iraq o in Libano, questi movimenti non facciano riferimento alcuno a forze di opposizione evidentemente inadeguate a rappresentarli.

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