Sulla via di Abramo... - di Alessandra Mecozzi

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Le preoccupazioni dei palestinesi sono fondate, la loro situazione è drammatica. Un passo positivo è l’accordo di Istanbul tra Fatah e Hamas. 

Non si sa chi abbia scelto la denominazione “Accordo di Abramo” per quello firmato il 15 settembre tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. C’è chi ipotizza che il nome del patriarca delle tre religioni monoteistiche (musulmana, ebraica, cristiana) indichi una volontà di espansione del controllo degli Usa e di Israele nell’area – oggi controllata dagli sciiti – della mezzaluna fertile (Iraq, Iran, Siria e Libano), i paesi del viaggio di Abramo, tra il 1800 e il 1700 a. C., da Ur dei Caldei a Canaan. Ne parla Fulvio Scaglione (Famiglia Cristiana 16 settembre), affermando che il titolo può evocare un programma politico-strategico per rendere inoffensivi quei Paesi.

In effetti, una delle chiavi dell’accordo, è che, oltre alla cooperazione commerciale, turistica, sanitaria - per lo sviluppo di un vaccino anti Covid che aiuterà “a salvare vite musulmane, ebraiche e cristiane in tutta la regione” - riguarda la vendita di produzioni militari da Usa agli Stati arabi. Rappresenterebbe un muro di difesa contro l’Iran, molto presente in questa storia, anche se non nominato, dato che Bahrein e Emirati, insieme all’Arabia saudita, si sentono minacciati dall’Iran, molto da vicino.

Il modestissimo prezzo che Trump ha fatto pagare ad Israele è la sospensione dell’annessione de jure di parte della Cisgiordania occupata: “Come risultato di questa svolta diplomatica e su richiesta del presidente Trump con il sostegno degli Emirati Arabi Uniti, Israele sospenderà la dichiarazione di sovranità sulle aree delineate nella Vision for Peace del presidente, e concentrerà i suoi sforzi sull’espansione dei legami con altri paesi nel mondo arabo e musulmano”.

I palestinesi hanno denunciato come tradimento l’accordo (che è ben più consistente dei precedenti, con Egitto e Giordania), ma gli Emirati arabi uniti (Eau) e il Bahrein non sono mai stati in guerra con Israele, né hanno mai avuto seri contrasti; non ci sono contenziosi territoriali irrisolti. Da 25 anni Israele ha contatti stabili con gli Emirati. Insieme ad essi, negli ultimi 10 anni, ha dato il proprio sostegno a colpi di stato o controrivoluzioni nell’area (Yemen, Libia, Iraq, Siria, Libano, Egitto, Palestina, Sudan e Tunisia, oltre allo stesso Bahrein e probabilmente al Qatar). Non stupisce quindi che la stessa Lega Araba abbia rifiutato di prendere una posizione critica verso l’accordo, venduto da Trump, come “accordo di pace”, con un parziale sostegno democratico.

I partner del Golfo di questi accordi e il loro alleato saudita cercano garanzie da parte di Israele-Usa, dal momento che i loro progetti per l’area si stanno scontrando con l’opposizione guidata dall’Iran e dalla Turchia.

In una visione ottimista, il problematico accordo di Abramo, “che soddisfa fondamentalmente gli interessi imperiali e personali dei due leader, potrebbe anche avere conseguenze insperate: mandando in frantumi il mito secondo il quale «tutti gli arabi ci vogliono far fuori» e indebolendo il muro di odio e veleno nel quale viviamo ogni giorno” (Zvi Schuldiner, Il manifesto 17 settembre 2020).

Le preoccupazioni dei palestinesi, tradimento o no, sono fondate, la loro situazione è drammatica: occupazione, colonizzazione e apartheid sul campo proseguono, come anche la violenza quotidiana di Israele contro civili. Un passo positivo, se si applicherà, è l’accordo di Istanbul tra Fatah e Hamas, che prevede tra l’altro, le elezioni entro i prossimi 6 mesi (dopo 14 anni).

Anche da questo punto di vista sarebbe indispensabile una iniziativa politico-strategica, lasciando la soluzione dei “due Stati” al regno del simbolico, e costruendo con il coinvolgimento popolare e poi internazionale, una strategia per la giustizia, i diritti e l’uguaglianza, unica condizione per la pace. Per i palestinesi è essenziale tornare in campo come attore politico. Le elezioni potrebbero favorire l’emergere di una nuova leadership unitaria, di una nuova generazione.

Altrettanto importante è una riforma dell’Olp, come diversi palestinesi sollecitano. Ha ragione Diana Buttu a dire che “è giunto il momento di avviare una riforma significativa dell’Olp. Il nostro movimento oggi continua ad essere guidato da individui la cui legittimità democratica è scaduta da tempo. Le ultime elezioni per il Consiglio nazionale palestinese dell’Olp, l’autorità legislativa che rappresenta le politiche dell’organizzazione, si sono svolte più di due decenni fa, e i giovani palestinesi devono ancora avere voce in capitolo su come sarà il futuro” (New York Times 8 settembre 2020).

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