Le riammissioni informali al confine orientale: un’importante decisione del Tribunale di Roma ne sancisce l’illegittimità - di Caterina Bove e Anna Brambilla

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Il ministero dell’Interno ammette il respingimento di 1.300 persone nel 2020, tra cui anche richiedenti asilo.   

Il 18 gennaio scorso il Tribunale di Roma ha accolto il ricorso presentato da un cittadino pakistano, richiedente asilo contro il respingimento subito dall’Italia poche ore dopo il suo arrivo a Trieste, nel luglio del 2020. Il ricorrente era stato trattenuto, informalmente, e poi altrettanto informalmente riconsegnato alla polizia slovena, dalla quale poi è stato riportato in Croazia e infine espulso alle porte dell’Unione europea, in Bosnia, dove attualmente si trova.

Una informalità, prevista dall’accordo bilaterale di riammissione di cittadini di paesi terzi in situazione di irregolarità firmato tra Italia e Slovenia nel 1996, intesa dalle autorità competenti come possibilità di relegare il destinatario del procedimento amministrativo a mero soggetto passivo: inascoltato e non informato, né in forma orale né scritta, circa le motivazioni e la procedura applicata.

Così l’interessato si è ritrovato estromesso dal territorio nazionale senza poter contestare le ragioni di una procedura di cui non era stato edotto, con piena lesione del suo diritto di difesa e alla presentazione di un ricorso effettivo, rispettivamente tutelati dalla nostra Costituzione e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Il mancato esame della sua situazione individuale ha impedito all’interessato di accedere alla procedura di asilo e di usufruire delle garanzie - di difesa a partecipazione - precisamente dettate dal Regolamento europeo cosiddetto “Dublino III”, nella procedura di determinazione dello stato Ue competente a esaminare una domanda di asilo.

Ma esaminando il meccanismo di riammissioni a catena che sistematicamente porta le persone dalla Slovenia alla Croazia e quindi in Bosnia, come in questo caso, o in Serbia, e le violenze perpetrate lunga la rotta balcanica, documentate da organizzazioni internazionali e dalle Ong, il tribunale ha osservato come la riammissione in Slovenia abbia anche rappresentato per l’Italia una violazione degli obblighi di non respingimento nella misura in cui ha esposto l’interessato al rischio, poi concretizzatosi, di trattamenti inumani e degradanti, contrari all’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Rischi di cui è indirettamente responsabile anche lo Stato italiano, per aver attuato un allontanamento dal territorio nazionale del cittadino straniero senza considerare i rischi nel Paese - e nei Paesi - di destinazione.

In considerazione dell’illecito comportamento delle autorità italiane, il tribunale ha riconosciuto al ricorrente il diritto ad un visto di ingresso in Italia, per presentare la domanda di asilo che, lo scorso luglio, gli è stato impedito di registrare. Il tribunale ha riconosciuto che la procedura che prende avvio come una riammissione tra paesi dell’Ue è in realtà parte di un più complesso meccanismo, che si traduce in un respingimento indiretto alle porte dell’Unione europea. Questa procedura ha riguardato, nel 2020, secondo i dati ufficiali del ministero dell’Interno, 1.300 persone.

Nella risposta all’interrogazione parlamentare presentata dall’onorevole Magi nel luglio del 2020, il ministero non ha nascosto di aver applicato la procedura in esame anche a richiedenti asilo, considerando la Slovenia e la Croazia come Paesi sicuri, e vantando l’applicazione di un accordo, quello firmato con la Slovenia nel 1996, che però non è mai stai ratificato dal Parlamento italiano, contrariamente a quanto previsto dall’articolo 80 della nostra Costituzione per gli accordi - come certamente quello di specie - di natura politica.

Dopo la pronuncia le autorità locali hanno - anche in tal caso informalmente - fatto sapere che le riammissioni sono temporaneamente sospese. In nessun modo tuttavia il ministero dell’Interno ha preso atto dell’illiceità della procedura attuata. Anzi ha presentato reclamo, attualmente pendente, contro la decisione. Una brutta pagina di storia che, speriamo, decisioni come quella citata e altre simili potranno consegnare al passato.

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