Il governo Draghi nella transizione del sistema - di Rodolfo Ricci

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Il governo Draghi si propone come soluzione all’instabilità politica per far fronte ad emergenze e scadenze decisive, ma sembra anche costituire l’occasione per l’avvio di un reset strutturale: una sperimentazione della transizione che ha tempi ben più lunghi del suo mandato. Draghi porta in dote una bozza di progetto per l’Italia che verrà esaminata all’estero e potrà essere modificata strada facendo; si tratta di tentare il superamento della dogmatica mercantilista di gestione della crisi neoliberista: un percorso le cui risultanze possono servire a molti altri paesi. L’inglobazione/emarginazione forzata della politica serve a verificare in che misura il panorama consolidatosi con la reazione alle misure imposte dall’Europa nel 2012 può essere fatto approdare a un paradigma di concertazione inter-corporativa, con l’occasione della pandemia.

Alle élite internazionali è chiaro che il sistema sta ondeggiando pericolosamente e che è da rimettere in sesto. I vincoli sistemici sono scalzati dall’emersione di altre superiori variabili: clima, equilibrio dell’ecosistema, ecc. L’obiettivo è dunque di tenere ben saldo il timone su strade impervie che possono non essere le più gradite; l’essenziale è dimostrare che le competenze delle aristocrazie tecnocratiche sono centrali per il cambiamento; perpetuare l’articolazione tra “alto” e “basso”, anche a prescindere dagli immediati interessi di chi sta sopra, verso un approdo che confermi la necessità del grande timoniere.

Una volta conseguito questo obiettivo, il ballo potrà ricominciare (se ci sarà ancora una pista da ballo); se non ci sarà, le élite potranno comunque riconfermare la propria centralità in uno scenario post-capitalistico.

Bisogna abituarsi a distinguere tra potere del denaro e potere in sé, che storicamente può essere articolato in molti modi. Ciò che è centrale è il potere. Il denaro viene dopo e può costituire elemento accessorio. La transizione può pervenire a un modello neo-feudale, oppure ad un “socialismo gestito dall’alto”. In entrambi i casi, ciò che conta è che vi sia un alto e un basso. E le élite sono, per definizione, collocate di sopra.

Premesso questo, si tratta di intendersi su quale sia l’obiettivo della controparte: di chi sta sotto. Preservare la democrazia vuol dire opporsi ad entrambe le soluzioni. Questione difficile da approcciare se il percorso intrapreso sarà quello del “socialismo dall’alto”. Ora, se la variante neo-feudale è già stata tentata con Trump e sovranismi vari, la fase apertasi con la sua sconfitta somiglia più alla seconda.

Draghi, grande intellettuale organico, apre ad una sua verifica (qui sta la diversità con Ciampi, Dini, Monti). La verifica prevede mediazioni transitorie con la pluralità dei soggetti nati nel 50ennio neoliberista: i portatori di interessi confliggenti devono essere accompagnati alla devoluzione di rappresentanza e alla loro metamorfosi. Un’articolata ingegneria per la costruzione di nuovi equilibri costituisce la cassetta degli attrezzi: al suo centro sta la modifica della lingua con cui interpretiamo la realtà. Vicenda ecologica, energetica, scienza, tecnologie, debbono compenetrarsi sotto la santa competenza di chi tiene il banco. Il “ministero della Transizione ecologica” è uno dei luoghi in cui avviene questa sperimentazione semantica.

Quali il ruolo e la funzione delle rappresentanze sociali/sindacali nella fase di transizione? Ci si può predisporre a un co-protagonismo nel processo di lunga mediazione, oppure astenersi e giocare la propria partita come soggetti alternativi, con obiettivo il recupero e allargamento della democrazia, e il superamento della dinamica alto/basso. Nella prima condizione si otterrà qualche vantaggio parziale. Nel secondo caso il rischio è di restare al margine. A meno che non ci si riconverta come soggettività pienamente alternativa al disegno in atto, e si assuma una funzione progettuale-politica immediatamente percepibile dal corpo sociale. Si tratta, in questo caso, di una modifica sostanziale della funzione di rappresentanza sociale come è stata intesa nella fase che si chiude.

Il passaggio appare neanche troppo drammatico: si tratta di decidere se (e in che tempi) la fine della politica dei partiti, con il suo assorbimento nel progetto delle élite, segni o meno un passaggio epocale, ed apra spazi di riconfigurazione della rappresentanza e del contesto che viene dopo. In esso il conflitto si definisce sulla natura dell’approdo, non tanto sui diversi passaggi, rispetto ai quali ci si può approcciare in termini tattici.

Questa opzione implica conseguenze organizzative e di gestione delle organizzazioni. Un punto centrale è quello di acquisire competenze politiche e tecniche all’altezza del passaggio qualitativo, attraverso una formazione allargata di quadri e militanti che consenta di assumere e trasferire una convincente analisi-lettura-prospettiva. La questione è di ordine culturale e non compendia per forza l’immediatezza di “un partito”, ma la revisione della funzione di rappresentanza sociale che da parziale diventa generale.

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