Lucio Magri, un neo-comunista - Intervista di Vittorio Bonanni all’autore, Simone Oggionni

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Uno dei più prestigiosi intellettuali della sinistra italiana, nonché dirigente di primissimo piano prima nella Dc e poi nel Pci, oltre che fondatore de “il manifesto”. Stiamo parlando di Lucio Magri, al quale Simone Oggionni, scrittore e responsabile cultura di Articolo 1, ha dedicato, a dieci anni dalla sua drammatica scomparsa, il libro “Lucio Magri. Non post-comunista ma neo-comunista”, corredato da una prefazione di Luciana Castellina e una postfazione di Famiano Crucianelli, e pubblicato da EdizioniEfesto.

Simone, nel tuo libro emerge con forza un Lucio Magri sempre desideroso di andare controcorrente sia nella Dc come nel Pci. C’è dunque un filo rosso che tiene unite queste due esperienze?
“Penso proprio di sì. Quello di Magri è un percorso che a me pare impregnato di una coerenza cristallina, non soltanto negli anni cinquanta e sessanta, e cioè nelle due esperienze che tu citi nella Dc e nel Pci, ma anche successivamente, dallo strappo del manifesto al Pdup, fino al ritorno nel Pci e ancora oltre. Ci tengo molto a sottolineare questo aspetto, perché spesso si è sostenuto il contrario. Io invece ritengo che si snodi, nella lunga esperienza politica di Magri, la traccia di un percorso di ricerca e di militanza che si sviluppa sempre intorno agli stessi assi. Il dialogo tra cattolici e comunisti, la proposta di un’idea di rivoluzione interna alla storia dei comunisti italiani e allo stesso tempo in dialogo con il meglio della cultura critica europea e mondiale, il tema della pace e del disarmo, lo studio delle linee di tendenza e di sviluppo del capitalismo, il rapporto con i movimenti, il ruolo del partito”.

Malgrado la radiazione dal Pci per il differente giudizio sull’invasione sovietica della Cecoslovacchia, Magri considerò sempre i comunisti come un punto di riferimento irrinunciabile. Fu questo un valore aggiunto rispetto agli altri partiti collocati a sinistra del Pci?
“Assolutamente sì. Magri rompe con il Pci nel 1969 per due ragioni: per un dissenso radicale nei confronti di un partito che non raccoglie gli stimoli che Togliatti aveva consegnato negli ultimi anni e che non capisce fino in fondo le novità che il Sessantotto indicava alla sinistra italiana ed europea. E anche, come tu ricordi, per la questione cecoslovacca. Ma per tutto il quindicennio che lo separa dal ritorno nel Pci nel 1984, Magri continua a predicare e praticare un atteggiamento di grande apertura nei confronti del Pci. Eccezion fatta per i primissimi anni successivi alla radiazione, nei quali vi è una difficile e alla fine dei conti infruttuosa frequentazione della galassia dei gruppi della nuova sinistra, vi è sempre, anche nell’autonomia, la ricerca costante di un dialogo e di un rapporto con il Pci”.

Nel libro descrivi bene, dopo la rottura con Rifondazione comunista, il graduale allontanamento di Magri dalla politica attiva. C’era dunque già la drammatica constatazione che un mondo stava ormai per scomparire?
“Occorre tornare indietro ancora di qualche anno. A quel seminario ad Arco di Trento con cui nel settembre 1990, prima del congresso di Rimini, si prende atto dell’impossibilità di tenere unito il fronte che si era sin lì opposto alla svolta di Occhetto. Ingrao rimane nel gorgo e Cossutta annuncia la rottura. È un punto di non ritorno sia nella storia della sinistra italiana, sia nella percezione della politica e del suo ruolo in essa da parte di Lucio Magri. Lì si infrangono le speranze di contrapporre alla svolta di Occhetto una proposta forte, credibile ed egemonica. Gli sviluppi successivi, compresa la storia del Prc, sono a valle di quella sconfitta. Del resto, come tu dici, è l’inizio della scomparsa di un mondo. Crolla il Muro di Berlino, si scioglie il Pci, e non nasce dalle ceneri di quell’esperienza nulla che possa rivendicarne l’eredità. Magri ne è consapevole e vive l’assenza di un soggetto politico all’altezza come un cruccio che politicamente lo divora”.

Proprio in virtù di questa fortissima disillusione e ancor più della morte della moglie Mara, Magri decise di avvalersi del suicidio assistito in Svizzera. È sempre difficile se non impossibile giudicare gesti del genere. Ma tu che impressione nei hai tratto parlando con chi gli stette vicino fino all’ultimo?
“È proprio impossibile giudicare. E anche se lo fosse, non lo farei. Avverto tutta la forza e la drammaticità di ciò che è imponderabile. Se devo esprimermi, penso che avesse ragione Valentino Parlato nel cogliere, in quella sua scelta, quella stessa mescolanza di razionalità pura e di passione che ne ha segnato la vita intera. In quella scelta c’è tutta la cifra umana e politica di una fiducia intransigente nella ragione, sempre però accompagnata da uno slancio, da un impeto di generosità sentimentale, di amore per le idee e per le donne e gli uomini che le esprimono. Non so come dirlo meglio, ma la presa d’atto di questa malinconia definitiva e insopportabile è stata consapevole, avvertita, non un abbandono, ma un altro modo di affermare le proprie ragioni”.

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