Superlega: calcio e lotta di classe dall’alto - di Cesare Caiazza

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In meno di due giorni il progetto dell’avvio della Superlega europea di calcio si è arenato. Alla mezzanotte del 19 aprile scorso, i dodici club fondatori (Arsenal, Atletico Madrid, Chelsea, Barcellona, Inter, Juventus, Liverpool, Manchester City, Manchester United, Milan, Real Madrid e Tottenham) ne avevano dato l’annuncio. Si configurava un torneo privato a numero chiuso, alternativo alla Champions League, riservato alle società europee più ricche e blasonate. La Superlega avrebbe dovuto prevedere la partecipazione annuale di venti squadre: quindici di diritto e altre cinque da scegliere stagionalmente a rotazione. I club fondatori avrebbero ricevuto un primo contributo complessivo di 3,5 miliardi di euro (frutto del finanziamento della banca americana Jp Morgan) ai quali aggiungere circa 10 miliardi “durante il corso del periodo iniziale di impegno delle squadre”.

Immediatamente dopo l’annuncio si è registrato un vero e proprio fuoco di sbarramento da parte di Uefa (Unione delle federazioni calcistiche europee), Fifa (Federazione internazionale di calcio) e federazioni calcistiche di tutte le nazioni europee. Simultaneamente sono intervenute durissime prese di posizioni da parte della politica: dal premier britannico Johnson al presidente francese Macron, dal presidente del consiglio italiano Draghi al vicepresidente della Commissione europea, Shinas. A causa di queste autorevoli critiche, e delle dure proteste delle tifoserie a partire da quelle delle squadre inglesi, la Superlega si è repentinamente sfaldata, determinando il congelamento del progetto.

A valle di questa farsesca vicenda, vanno sviluppate alcune riflessioni sul presente e il futuro non solo del calcio ma dello sport in generale, arrivato – con un’accelerazione indotta dagli effetti della pandemia – a dover affrontare nodi non più rinviabili.

Il tentativo di dare vita alla Superlega deriva dalla necessità di fronteggiare una vera e propria catastrofe economica. La Gazzetta dello Sport ha quantificato in 7,772 miliardi di euro il debito complessivo delle dodici società che hanno sostenuto il progetto. Un indebitamente colossale, causato da minori entrate (come quelle connesse alla vendita di biglietti per gli stadi, rimasti sostanzialmente vuoti da oltre un anno) ma, soprattutto, da follie non più sostenibili, come gli stipendi milionari dei calciatori. Basti pensare allo stipendio annuo da mezzo miliardo di Lionel Messi.

Mentre si consumava lo psicodramma della Superlega, rispetto alla gravità della fase che sta attraversando l’intero sport in Italia, il presidente della Federazione italiana nuoto, Paolo Barelli ha dichiarato: “Se non vengono messi a disposizione un paio di miliardi di euro per tenere in vita le società sportive saranno veramente guai…lo sport è garantito nel Paese esclusivamente dalle 70mila e oltre società. Non si fa nella scuola, i comuni non hanno fondi per politiche a favore dell’attività motoria, le società hanno dovuto chiudere l’attività da oltre un anno perdendo due stagioni di attività, e non hanno più i soldi per poter pagare i costi di questa chiusura. Se si interrompe questo volano garantito dalle società, che operano in sostituzione dello Stato che non c’è mai stato nell’ambito della promozione, lo sport italiano si ferma”.

E’ stato un grido d’allarme che, partendo dalle distorsioni peculiari che storicamente segnano l’attività sportiva nel nostro Paese, sottolinea l’urgenza di una riprogettazione del funzionamento dello sport. Se è vero che il calcio è lo sport più praticato e seguito al mondo, non si può che partire da questo. Fifa e Uefa, unitamente alle istituzioni politiche europee, hanno fatto bene nel contrastare l’ipotesi della Superlega che avrebbe “salvato” i club più ricchi a scapito di tutto il resto. Adesso però è il tempo di adottare soluzioni non più rinviabili, perché il sistema (anche a causa delle conseguenze della pandemia) non regge più. Una delle prime cose da fare è quella di mettere un tetto alle retribuzioni dei calciatori e, più in generale, di tutti gli atleti professionisti, manager, allenatori e procuratori.

Contemporaneamente occorrerebbe definire un piano di rilancio dello sport, attraverso un serio intervento programmatorio delle istituzioni, mettendo al centro i temi legati all’accesso per tutti alla pratica motoria e alla dignità del lavoro, considerando che almeno l’80% tra atleti dilettanti e addetti alle attività sportive sono lavoratori “invisibili”, senza diritti.

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