Milano alla prova del domani - di Vincenzo Greco

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La Camera del Lavoro Metropolitana di Milano ha predisposto un progetto di ripresa per la città che propone il passaggio dalla “smart city” alla “smart society”. 

Milano, la Milano dell’Expo, degli eventi e delle vetrine, è stata una città diseguale. Il modello di sviluppo milanese di questi anni ha reso il territorio attrattivo, ma non inclusivo. La crescita e la ricchezza dell’economia del territorio non hanno determinato un beneficio per tutte le cittadine e i cittadini, le lavoratrici e i lavoratori che hanno contribuito alla generazione del Pil del comprensorio. La capacità di produzione della ricchezza ha prodotto tanto lavoro povero, occasionale, intermittente. Le condizioni di vita nelle periferie, ribattezzate elegantemente quartieri, non sono migliorate e in diverse circostanze anche peggiorate, se pensiamo soprattutto alla concentrazione abitativa di persone immigrate. Questo il modello della doppia velocità. Qualcuno corre, qualcuno stenta.

Le politiche urbanistiche sono state conseguenti. Alcuni quartieri di Milano hanno cambiato lo skyline sostituendo insediamenti tradizionali con avveniristici centri direzionali di acciaio e vetri a specchio. Un territorio attrattivo, con grandi ambizioni, che nel diventare esteticamente bello e moderno comprimeva l’area dei diritti di chi vive del proprio lavoro o della propria pensione, chiudeva ambulatori territoriali pubblici a favore dell’eccellenza ospedaliera, dove la sanità privata più facilmente trova il margine per il proprio interesse. Proprio nella sanità il cambio di paradigma: dal prevenire è meglio che curare, al curare è più conveniente che prevenire.

L’evento pandemico ha mostrato tutti i limiti di questo modello, ha reso più evidente quanto la capacità di creare ricchezza fosse basata su un’idea di lavoro senza valore, e che la rigenerazione urbana fosse a disposizione di chi se lo poteva permettere o di chi, grazie alla disponibilità di grandi risorse economiche, poteva condizionare scelte significative. Il dibattito sugli scali ferroviari, piuttosto che quello sullo stadio, sono stati paradigmatici.

Milano non è stata solo questo. Milano è stata, ed è, una città che è riuscita a mobilitare le parti migliori della nostra società. Le esperienze diffuse dell’associazionismo solidale, le svariate forme di organizzazione e autorganizzazione sociale, rappresentano una ricchezza che quotidianamente tiene aperta una dialettica sociale e culturale nelle forme più varie. La rappresentanza sociale del lavoro, la Cgil, è giusto che stia in questo sistema di relazioni e alleanze sociali.

Partire da questa lettura significa ragionare delle possibilità per le persone che vivono e lavorano a Milano, significa avere lo spazio per pensare ad un modello di sviluppo del territorio orientato all’inclusione sociale e ai diritti, significa provare a tracciare un’ipotesi del riorientamento della vocazione del territorio che si misuri con la condizione sociale e il cambiamento.

Oltre alla sospensione, e/o probabile ridefinizione delle modalità, degli eventi in città, cosa ci consegna la pandemia come misura della condizione sociale e del lavoro? Prima di tutto che il lavoro non è tutto eguale. Tante persone hanno avuto l’opportunità di lavorare in smart working. Con certezza hanno avuto la possibilità di esercitare una continuità lavorativa che non necessariamente è stata presupposto di tranquillità, questo vale soprattutto per le donne. Oltre alle nuove frontiere che la contrattazione collettiva dovrà affrontare, sicuramente molti uffici sono stati svuotati, e non è detto che verranno rioccupati come lo erano nel passato.

Lo smart working si intreccia inevitabilmente con un bilancio circa la possibilità concreta di lavorare da casa. Sì, perché si è parlato di smart working, ma in realtà è stato home working. Quindi un primo interrogativo riguarda il luogo, i luoghi del lavoro nella Milano di domani.

Una questione immediatamente successiva riguarda la grande quantità di lavoro che ruotava attorno ai centri direzionali, dal sistema dei servizi alla ristorazione. Uffici vuoti, o semi vuoti, significa meno necessità di spazi da gestire e da pulire, meno persone che richiedono pasti e/o si muovono. La conseguenza, sempre riferita al primo interrogativo, riguarda l’economia del territorio, quella della quotidianità.

Sempre a proposito del lavoro non eguale, il lavoro povero e precario ha pagato due volte la sua condizione: la prima nelle condizioni di lavoro (quando c’era), la seconda nella perdita di quel lavoro, mal pagato e saltuario, che non ha avuto adeguata protezione nel periodo della pandemia.

Quindi la questione sociale è elemento centrale della riflessione che la politica nazionale e del territorio deve assumere. Questione sociale che rischia, a seguito dello sblocco dei licenziamenti, soltanto di diventare una bomba che mina l’idea stessa di coesione sociale. E quando parte una dinamica incontrollata, gli esiti sono imprevedibili. Quello che è accaduto in queste settimane nel settore della logistica è emblematico di un clima che via via si va definendo.

Far rientrare la dialettica sociale nell’agenda della politica è tutt’altro che scontato. Le mobilitazioni unitarie del 26 giugno sono lì a dimostrarlo. Ma questo deve essere l’impegno a tutti i livelli.

La Camera del Lavoro Metropolitana di Milano già nei mesi scorsi ha predisposto un progetto di ripresa per la città che, per giocare con gli inglesismi, teorizza il passaggio dalla “smart city” alla “smart society”. Ovvero un cambio di paradigma nella lettura sul modello di sviluppo del territorio che mette al centro la società, la comunità di donne e uomini portatrici e portatori di diritti, al posto della città intesa come luogo dell’evento, della vetrina e del consumo.

Questo significa la valorizzazione del lavoro, in particolare del lavoro pubblico, e della buona occupazione come “antidoto” contro la vulnerabilità del modello di sviluppo a due velocità e come “cura”, attraverso l’utilizzo dei fondi derivanti dal Pnrr, per affrontare un cambiamento che assume tra i suoi obbiettivi di sostenibilità i temi ambientali come quelli sociali.

Poi la ridefinizione, attraverso le cosiddette “officine territoriali”, dei luoghi del lavoro, della socialità e dei diritti, per misurarsi con il cambiamento della modalità della prestazione d’opera in forma decentrata e diffusa nel territorio. Non semplici forme di decentramento di attività impiegatizia, né semplici coworking.

Ancora, un piano di investimenti in infrastrutture, quella digitale come quella della mobilità, che assuma come obiettivo il superamento della disparità della capacità di connessione nel territorio unitamente agli interventi di sostenibilità ambientale. La creazione di un “Piano regolatore digitale” per la trasparenza e l’utilizzo legale della grande massa di dati e di informazioni che circolano sulla rete digitale. E un piano straordinario di investimenti a favore degli edifici pubblici per rendere le nostre scuole più moderne e adeguate alle esigenze di spazi, come più diffuso sul territorio il presidio dei servizi sanitari e sociali. La definizione di forme di partecipazione dove la rappresentanza sociale del lavoro possa promuovere il proprio punto di vista, il punto di vista del lavoro, e contribuire alla costruzione di un cambiamento necessario.

Infine la definizione, per via pattizia, di un modello milanese, quello degli Rls di sito produttivo, così come definiti negli accordi Expo e M4 (costruzione nuova linea metropolitana), per il presidio della rappresentanza della salute e sicurezza dei lavoratori nei cantieri che accompagneranno la trasformazione della città.

Questi sono solo alcuni spunti di riflessione, tratti da un documento ben più complesso, che possono servire a un dibattito nel territorio - che nei prossimi mesi sarà impegnato nella campagna elettorale per l’elezione del sindaco, dei presidenti di Municipio e delle relative assemblee elettive.

Un tentativo, forti di un punto di vista autonomo, di inserire nel dibattito elettorale le persone, i loro bisogni e le risposte agli stessi, da parte di chi non rinuncia alla funzione generale del sindacato, e che lotta e si impegna per una società più giusta e più equa.

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