Elezioni a Roma. Tutte le strade portano… ad un bivio - di Mimmo Dieni

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Con il voto del 3 e 4 ottobre, snobbato dalla maggioranza assoluta dei romani (alle urne solo il 48,83%, record negativo assoluto, otto punti in meno sul 2016) si è chiusa definitivamente la breve, confusa e tormentata stagione a 5 Stelle. Stagione iniziata trionfalmente cinque anni fa, con un clamoroso 35% al primo turno e l’ampia vittoria di Virginia Raggi (quasi il 70%) al ballottaggio contro il candidato del Pd, il radical-renziano Giachetti. Il trionfo era completato dai municipi: 13 su 15 avevano visto l’elezione di presidenti grillini, mentre il centrosinistra si imponeva solo nel centro storico e nel secondo municipio. Poi, nel corso del mandato, per crisi politiche laceranti, i 5 Stelle ne avevano persi quattro: dove si è tornati alle urne, tutti a vantaggio del centrosinistra.

Oggi nessun candidato “a 5 stelle” è presente ai ballottaggi. La Raggi ha raccolto un 19% di voti, mostrando quantomeno di avere uno “zoccolo duro”. Per tutti gli altri è stata la debacle. Il M5S scende dal 35% all’11%.

Si tornerà alle urne per un ballottaggio tra il candidato carneade della destra (che ironicamente aveva impostato la sua campagna su “Michetti chi?”), esperto in storia dell’antica Roma, al primo posto con oltre il 30%, e il candidato del centrosinistra, l’ex ministro dell’economia Roberto Gualtieri, deputato del Pd, che ha superato di poco il 27%.

Terzo arriva Calenda, protagonista di una campagna elettorale dispendiosa ed aggressiva, con intollerabili dichiarazioni antisindacali, minacciose nei confronti delle categorie dei dipendenti pubblici più sindacalizzate e combattive. La sua lista, appoggiata con discrezione dai renziani di Iv (e con clamore dalla minoranza leghista di Giorgetti) e imbottita nei municipi da candidati ex Pd, è il primo partito della capitale con oltre il 19% dei voti. Seguito da Fratelli d’Italia della Meloni, che sale al 17,43% dal 12% di cinque anni fa (e dal 9% delle politiche 2018). A tutto discapito della Lega, che pur quasi raddoppiando consensi e percentuale sul 2016, si ferma sotto il 6%, mentre nelle politiche di 3 anni fa si era imposta come primo partito della destra romana, con l’11%.

Appare evidente che, con “l’endorsement” di Giorgetti, non pochi voti leghisti abbiano dirottato verso la spregiudicata lista centrista di Calenda. A Roma e nel Lazio, parecchi politici fascisti e di destra erano passati, armi e bagagli, alle file del partito di Salvini, che sembrava destinato ad un radioso avvenire. Che faranno ora? Proveranno a tornare alla vecchia “casa madre”, mentre i loro ex camerati rimasti fedeli alla fiamma affilano già le armi della vendetta politica? A destra, Forza Italia continua il suo inarrestabile declino, restando sotto il 4%.

Il Pd canta vittoria. È il terzo partito della capitale con il 16,38%, ma perde in percentuale (meno 0,8%) e in voti assoluti. Al ballottaggio, Gualtieri è dato per favorito, visto il distacco di soli tre punti da Michetti e contando che la maggior parte dei voti di Raggi e Calenda possano convergere su di lui. Ma attenzione, in realtà questo esito non è affatto scontato. Se l’ex premier Conte ha dichiarato che al ballottaggio i grillini non possono scegliere la destra, l’elettorato residuo dei 5 Stelle appare del tutto incontrollabile, così come quello di Calenda-Renzi, che sembra, in parte, piuttosto avverso ad una vittoria del centrosinistra.

Dulcis in fundo, anzi decisamente “amara in fundo”, la sinistra, che nel panorama delle 39 liste in lizza è stata l’unica a cercare di porre le problematiche sociali e legate al mondo del lavoro e del non lavoro. Nel 2016 la candidatura di Stefano Fassina (che univa movimenti e le varie forze politiche) raccolse il 4,5%, eleggendolo in Consiglio comunale. In questa tornata, la sinistra si è presentata clamorosamente frantumata, divisa tra chi sosteneva la coalizione di Gualtieri e uno stillicidio di liste comuniste.

Fallito il tentativo di lista unitaria intorno alla pur autorevole candidatura dell’urbanista Paolo Berdini (alla fine sostenuto dalla sola Rifondazione), c’è stato un suicida ordine sparso. È stato il pezzo nella coalizione di centrosinistra, Sinistra Civica Ecologista (Articolo 1, Sinistra Italiana e spezzoni di movimenti ecologisti e sindacali), a raggiungere il risultato maggiore, seppur forse insufficiente ad eleggere un rappresentante: poco più del 2%, nonostante la presenza di una lista civetta di “sinistra”, formata da ex grillini, radicali e Possibile.

Il resto può solo vantare le ormai solite, tristi percentuali da prefisso telefonico: 0,6% per l’autoreferenziale Potere al Popolo, 0,4% per Berdini, 0,3% per il Pci, nonostante il glorioso simbolo, 0,3% per il partito di Rizzo che ha candidato una sindacalista (di destra) licenziata dall’Atac, 0,2% per il partito Gay-Lgbtq. Chiude lo 0,1% del Pcl, candidato sindaco Franco Grisolia.

Ora si attende il ballottaggio, con la speranza che la prevedibile ulteriore astensione non consegni la capitale nelle mani della Meloni e della sua lista imbottita di elementi dichiaratamente fascisti.

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