Una sentenza aberrante contro un’utopia realizzata - di Mimmo Rizzuti

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Sulla aberrante sentenza che ha condannato in primo grado Mimmo Lucano a 13 anni e 2 mesi di reclusione e al risarcimento di un danno erariale per centinaia di migliaia di euro, alla viglia del voto regionale in Calabria, è stato scritto tutto da ogni versante. Da quello meramente giuridico, a quello etico, a quello del rapporto tra etica e politica, fino a quello più squisitamente politico. Tutti concordi, partendo dallo specifico giuridico-formale, nel ritenere spropositata la pena inflitta.

Si va dai duecento docenti di discipline giuridiche di tutte le università italiane, a luminari del diritto e della filosofia del diritto come Luigi Ferraioli (una sentenza scandalosa espressione di una forma di settarismo giudiziario da cui potrebbe anche “derivare un danno al senso morale del Paese”), a Donatella De Cesare (una punizione sovranista tra burocrazia ottusa e legalismo meschino), a costituzionalisti come Massimo Villone (una pagina nera nella storia della Repubblica).

Tutte le reazioni a difesa di Lucano hanno chiamato in causa, sia pur in vario modo e con diversità di accentuazioni, argomenti di carattere giuridico quali, tra altri, il diritto alla solidarietà come dovere costituzionale, lo stato di necessità come scriminante di condotte penalmente rilevanti, ma anche il diritto naturale alla ribellione di fronte a leggi ingiuste.

Io qui voglio sottolineare un aspetto che si coglie in maniera esplicita in questa vicenda amara. E cioè la criminalizzazione, con Lucano ed il gruppo dei suoi collaboratori più vicini di cui poco si parla ma che hanno subito pene pesantissime, di una grande esperienza di cambiamento, un’utopia concretizzata in venti anni. Quella della Riace accogliente, inclusiva, solidale, capace di ridare vita ad un paese in via di abbandono, come quasi tutti i paesi delle zone interne della Calabria e non solo, attraverso una nuova idea e pratica dello sviluppo locale.

Di quella esperienza, espressione non già di un percorso individuale, ma di una costruzione inedita, difficile e affascinante, realizzata attraverso un’ampia partecipazione corale e con innumerevoli apporti culturali, politici e umani provenienti da tutta Italia e da molte parti dell’Europa, Mimmo Lucano è stato l’ispiratore, l’anima e la presenza trainante.

Un’esperienza divenuta un modello di riferimento mondiale sui temi dell’accoglienza e dello sviluppo locale “dolce”, basato su inclusione e lavoro, su integrazione sociale e partecipazione. Un modello che, nel post pandemia, si presenta come un vero e proprio paradigma per alimentare relazioni umane ed economie circolari, sostenibili e durature nelle zone interne e nelle aree marginalizzate da un trentennio di politiche liberiste.

In questo scenario Mimmo Lucano si è caratterizzato come un’icona di attaccamento e radicamento al proprio paese, alla sua terra, alla Calabria. Non un radicamento chiuso, autocontenuto, localistico, bensì un radicamento dinamico e aperto agli influssi esterni. La forza e l’originalità del suo modello è proprio la capacità di ibridazione tra locale ed esterno, tra bisogni dei nativi e bisogni dei nuovi arrivi, tra i desideri di rinascita dei paesi e le speranze di ricominciare altrove degli immigrati.

Anche per questo, quel modello è diventato con Mimmo Lucano l’espressione nel mondo dell’Altra Calabria e, insieme, di un altro Pianeta possibile (vedi l’appello per Mimmo Lucano in Consiglio regionale). Un modello che consentiva l’incontro di persone, culture, sofferenze, speranze, senza i traumi ed i contrasti esplosivi che si registravano in altre realtà ben più strutturate di un piccolo paese della Jonica Reggina, anonimo fino alle tre sindacature consecutive di Lucano. Al massimo arrivato alle cronache per il ritrovamento dei bronzi o per qualcuno dei tanti episodi di una ‘ndrangheta pervasiva, oppressiva e feroce, che domina in quell’area.

Tutti ricordano come, nei momenti più alti e critici dell’afflusso dei migranti (2016-2017), mentre in paesi e città di gran lunga più grandi di un comune di 1600 abitanti scoppiavano rivolte di sindaci e popolazioni per qualche decina di profughi da ospitare, a Riace, anche su pressione continua della prefettura e del ministero degli interni, arrivavano in centinaia. E l’allora sindaco Lucano, nel sistema oggi incriminato, riusciva ad accoglierli nel rispetto della loro dignità umana e dei loro diritti, cercando di colmare vuoti della legislazione sull’accoglienza, nel rispetto assoluto della Costituzione e dei suoi principi fondamentali. Costretto, nell’organizzare l’accoglienza, a reagire ai ritardi e alle inadempienze dell’amministrazione dello Stato con ripetute forzature amministrative, fatte sempre alla luce del sole e rivendicate in mille interventi ed interviste.

“Ci sono in ciò dei reati? Io non lo credo, ma è possibile e non sarebbe uno scandalo accertarlo in un processo. Non è stato questo, peraltro, l’oggetto del processo di Locri, in cui l’accusa fondamentale mossa a Lucano e su cui si è articolata l’intera istruttoria dibattimentale è stata quella di avere costituito, con i suoi più stretti collaboratori, un’associazione ‘allo scopo di commettere un numero indeterminato di delitti (contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica e il patrimonio)’, orientando i progetti di accoglienza finanziati dallo Stato ‘verso il soddisfacimento di indebiti e illeciti interessi patrimoniali privati’. Una ottusa assurda follia, se si considera il tenore di vita di Lucano e di tutti gli altri componenti della sua ‘ndrina’ condannati. È questa la chiave di volta dell’intera vicenda giudiziaria. In essa l’imputato, a ben guardare, non è Mimmo Lucano ma il modello Riace, trasformato da sistema di salvataggio e accoglienza in organizzazione criminale.

Resta da chiedersi il perché di tutto questo. La risposta, in realtà, è agevole. Riace è stata, nel panorama nazionale, un unicum. Altri paesi e altre città hanno accolto migranti, anche in misura maggiore e con risultati altrettanto positivi. Ma Riace non si è limitata ad accogliere e a integrare. L’accoglienza è diventata il cuore di un progetto comprensivo di molti elementi profondamente innovativi: la pratica di una solidarietà gratuita, l’impegno concreto contro la ‘ndrangheta, un modo di gestire le istituzioni vicino alle persone e da esse compreso, il rilancio di uno dei tanti luoghi destinati all’abbandono e a un declino inarrestabile. Incredibilmente, quel progetto, pur tra molte difficoltà, è riuscito. La forza di Riace è stata la sua anomalia. La capacità di rompere con gli schemi formali e le ottusità burocratiche. Il trovare soluzioni ai problemi delle persone anche nella latitanza o nel boicottaggio di altre istituzioni. E poi, l’elezione di Lucano per tre mandati consecutivi è stata la dimostrazione che l’accoglienza può generare consenso, che si possono tenere insieme gli ultimi e i penultimi, che c’è un’alternativa allo status quo.

Tutto questo non poteva essere tollerato nell’Italia dei predicatori di odio, degli sprechi, della corruzione, dell’arrivismo politico, della convivenza con le mafie, dell’egoismo localistico, del rifiuto del diverso. Da qui la reazione dell’establishment, le ispezioni e il taglio dei fondi, la delegittimazione e l’invocazione (a sproposito) della legalità, il processo e l’arresto di Lucano e, infine, la sua condanna” – come ha scritto Livio Pepino (www.VolerelaLuna.it).

Questa conclusione di Pepino coincide con la lucida controstoria di Ilario Ammendolia nel suo “La ndrangheta come alibi” (Città del Sole 2019) che, scorrendo la storia della Calabria dal dopoguerra ad oggi, mostra come, quando si presenta un cambiamento reale che mette in moto forze sociali e scuote il sistema, scatti la controffensiva violenta e la criminalizzazione dei ribelli. Avvenne con la mitica repubblica di Caulonia nell’immediato dopoguerra (marzo 1945); alla fine di quegli stessi anni ’40 e agli inizi dei ‘50 con le lotte per la terra e la riforma agraria scattate con i decreti Gullo del ‘44; avvenne alla fine degli anni ‘60 con il summit di ‘ndrangheta di Montalto (ottobre 1969), che segna la mutazione dell’organizzazione criminale e dei suoi rapporti con lo Stato di fronte ai grandi cambiamenti seguiti alle lotte studentesche e operaie del 1968-69. Avviene oggi con Lucano e il modello Riace, che ha aperto la strada di un cambiamento strutturale.

Oggi quel vento di cambiamento in tema di governo dell’immigrazione, attraverso un’accoglienza e una inclusione dignitose coniugate con lo sviluppo locale, viene colpito duramente, aldilà di ogni comprensibile e tollerabile misura, nel suo ispiratore e nella parte più stretta dei suoi collaboratori.

In situazioni del genere si recita sempre il mantra secondo cui le sentenze si accettano, non si discutono. O meglio per discutere aspettiamo le motivazioni. Personalmente, come è stato scritto da giuristi e filosofi del diritto, ritengo che questa sentenza sia frutto della scelta dei giudici di Locri di leggere e applicare la legge in maniera ottusamente burocratica ed offensiva della giustizia e della Costituzione, in ossequio alla famosa frase di Giovanni Giolitti “Per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano”. Una sentenza, per me, non solo da contestare, ma rifiutare e contrastare perché palesemente “in odio all’imputato”, e frutto di una volutamente ottusa e burocratica applicazione della legge.

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