La cura come nuovo paradigma della salute collettiva - di Patrizia Fistesmaire

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Valorizzare il ruolo dei professionisti, delle interconnessioni tra i luoghi di produzione dei servizi socio-sanitari e le comunità, significa cambiare paradigma, passare da una logica della salute condizionata alla spesa e al profitto, legata ad un modello patriarcale e verticistico, ad una della cura, che realizza l’accudimento della persona in tutte le sue componenti e l’accoglienza dei molteplici bisogni presenti durante una malattia.

Il modello aziendalistico della salute pubblica limita lo sviluppo di una società della cura, per l’accentramento del governo e della programmazione e poiché risente dell’assoggettamento ai tetti di spesa, tarati su esigenze economiche e non su esigenze di salute.

L’emergenza Covid19 ha messo in evidenza molti aspetti problematici del nostro sistema sanitario. Tra questi, la necessità di considerare anche i bisogni sociali che spesso non sono oggetto delle politiche sanitarie per la messa a punto dei servizi. Coinvolgere direttamente gli operatori e le operatrici, facilitare la partecipazione attiva della società civile, incrementare le possibilità di formazione e di crescita professionale può contribuire a sviluppare una cultura diversa della salute pubblica.

La gestione della pandemia ha funzionato laddove si è investito sulle risorse territoriali di prossimità, e sulla buona comunicazione riguardo ai comportamenti individuali e collettivi. La comunità ha risposto proteggendo sia gli operatori sanitari che i cittadini e le cittadine.

Se questa emergenza sanitaria mondiale qualcosa ci ha insegnato, è a comprendere quanto le relazioni siano irrinunciabili e non un elemento accessorio, cioè rappresentano parte fondante della cura.

Il termine cura evoca la protezione e l’attenzione per chi è più fragile o debole, senza se e senza ma. Questo si realizza solo valorizzando l’accesso ai servizi e la possibilità di usufruirne in ogni fase della vita e in ogni momento della malattia, senza frantumazioni nel percorso dovuto a disfunzioni organizzative. La cura è per definizione universale e non contempla frammentazioni, distanziamenti, ostacoli, dovuti ai modelli tecnico-organizzativi. Per questo sarebbe importante non un restyling degli attuali modelli, ma una rivoluzione degli assetti socio-sanitari che preveda la partecipazione attiva delle comunità, sia nella messa a punto dei fabbisogni che nella programmazione dei servizi. Bisogna ripensare un modello binario basato sulla dicotomia tra sano e malato, tra malattia e assenza di malattia, concentrando lo sviluppo di politiche che vadano nel senso della prevenzione e della promozione della salute. Uscire da un’ottica occidentale e pragmatica per recuperare le sfere dell’etica e dei sentimenti che abitano sia i processi organizzativi che le singole persone, a partire dai lavoratori, così come le persone da assistere. Le relazioni delle persone e tra le persone sono un elemento fondamentale della cura stessa.

La direzione è quella della ricerca di un senso più ampio in cui la persona è al centro del suo percorso clinico-assistenziale, e a cui ruota attorno una rete di servizi e di professionisti. Una logica circolare, che non conosce fratture né interruzioni di percorso. Il valore della partecipazione attiva delle persone, delle pratiche sociali e dell’attenzione agli stili di vita è volto alla ricerca di un senso sia per il benessere individuale che collettivo, integrando il bisogno del singolo con quello della comunità.

La cura è un paradigma femminile, nel senso delle caratteristiche di maternage e di contenimento, ma è anche una svolta femminista poiché riduce la miopia dei modelli autoritari, partendo dalla democrazia, come potere di intervento collettivo finalizzato all’empowerment e alle competenze di autogestione.

Una comunità che cura facilita l’aumento del ruolo del paziente e lo sviluppo della propria capacità di partecipare attivamente alla gestione della propria salute. L’empowerment del paziente diventa uno tra gli obiettivi centrali che orientano la relazione fra chi eroga e chi riceve il lavoro di cura.

L’etica della cura ci porta a ripensare la classificazione del binomio salute-malattia, in senso di unicità e non di iato o di contrasto. Salute e malattia sono condizioni umane che si alternano nell’arco della vita e che richiedono nuovi equilibri e adattamenti. Questo è l’elemento fondamentale per cambiare la relazione fra erogatore e fruitore del lavoro di cura, e consente di porre le relazioni e gli scambi informativi fra i professionisti su basi diverse, meno dipendenti dalla logica specialistica e più orientati alla globalità delle persone.

Nella letteratura emerge ormai come il modello di uomo inteso come universale, che coincide con il maschio, sano, bianco, urbanizzato, che parla un linguaggio standard, eterosessuale, sia superato. La vulnerabilità, la fragilità, la disabilità diventano l’energia e la sostanza per un nuova sfida del post umano.

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