Letizia Battaglia, la fotoreporter comunista. Nei suoi scatti la ricerca della dignità umana - di Donatella Ingrillì

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Ho conosciuto Letizia Battaglia nei primi anni ‘90, da sindaca, ad un incontro istituzionale con Leoluca Orlando primo cittadino del Comune di Palermo, in una conferenza di servizio con altri amministratori siciliani sul bilancio regionale. Poche battute, uno scambio veloce ma intenso, con una donna che ci teneva a dirsi comunista, in quel periodo impegnata come assessora alla vivibilità nel capoluogo siciliano, ormai da tempo una icona dell’impegno civile, simbolo dell’antimafia, testimone indiscussa della quotidianità palermitana oltreché già protagonista a pieno titolo della storia della fotografia internazionale. Pier Paolo Pasolini fu il soggetto del suo primo scatto quando si trasferì a Milano.

Prima fotografa a lavorare nel 1974 presso un quotidiano italiano, “L'Ora” di Palermo e prima donna europea a ricevere a New York il premio americano Eugene Smith nel 1985, assegnato ogni anno dal 1978 ai migliori fotoreporter per il proprio impegno professionale su temi sociali, Letizia Battaglia era diventata famosa come fotografa “contro la mafia” come amava definirsi. Ma, come dimostrano i suoi scatti, vere opere d’arte in bianco e nero, era la vita quotidiana che attirava la sua attenzione, in parte la società del Gattopardo, ma soprattutto la “straordinaria puzza” di Palermo, la sua decadenza, i vicoli degradati con i suoi abitanti condannati spesso alla miseria, bambini “a rischio”, adulti, e in particolare donne e bambine dal presente incerto come il futuro.

La sua non era una semplice operazione di alta tecnica fotografica, tecnica che confessa di non aver mai studiato, lo sguardo doveva andare oltre l’estetica, cogliere ciò che non era visibile, ottenendo come risultato la trasposizione stessa dell’autrice nel soggetto, nella sua psicologia, nella sua condizione più profonda, la foto diventava strumento di salvezza e verità. “Io fotografo perché devo stare da quella parte e lo devo dimostrare in qualche modo, lo devo testimoniare e lo devo raccontare”.

Letizia potremmo descriverla come una fotografa militante, che cercava dentro e fuori di sé le tracce di una giustizia possibile, non divina ma umana, e ne immortalava le sembianze, per offrirle a chiunque le potesse riconoscere e praticare. Il bianco e nero le consentiva di cogliere l’essenza del suo messaggio reale ed insieme artistico, nessun altro colore a distrarre l’occhio, chiaroscuri, contorni netti e sicuri, sguardi nudi e forti, corpi che ti trascinano dentro, ti costringono a bucare la superficialità e la passività, a ricercare e mostrare la dignità umana.

Pur allontanandosene ogni tanto, come quando andò a vivere a Parigi, Letizia Battaglia, ritornò sempre nella sua città, Palermo e non l’abbandonò mai. “Ho fotografato in tutto il mondo ma fuori da Palermo le foto mi vengono diverse. Qui c’è qualcosa che mi appartiene o io forse le appartengo”. Diceva di sé: sono una persona che fotografa, ma la fotografia era solo una parte di lei, e rivendicava il suo volontariato nell’ospedale psichiatrico La Real Casa dei Matti di Palermo dal 1985 al 1989, fatto di animazione, teatro, musica, documentati da scatti di cruda disumanità; la direzione della rivista palermitana Mezzo Cielo, tutta al femminile al fianco di Simona Mafai; l’elezione a deputata regionale nella Rete a sostegno delle politiche ambientaliste; l’impegno alla riapertura, durante la sua presenza nella giunta Orlando, della prestigiosa ma abbandonata Villa Sperlinga, costruita nel 1667 e dal 1997 nuovamente fruibile; la realizzazione a Palermo nel 2017 del Centro Internazionale della fotografia nei Cantieri culturali della Zisa, un progetto del quale era particolarmente orgogliosa.

Cosa ricordo di quell’incontro con Letizia Battaglia? Gli occhi di una comunista pieni di dolce determinazione, gli occhi di una donna forte, che fotografando, in tempi nei quali il mestiere di fotoreporter era esclusivamente maschile, si era conquistata liberazione e libertà, e che con la sua militanza politica e sociale e la sua tenacia non voleva rinunciare all’idea che una società davvero uguale fosse possibile.

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