Manderei i miei figli a morire in guerra? - di Raffaella Bolini

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Manderei mio figlio a morire per difendere il mio paese, la mia città o persino la mia casa? Non leggo quasi più niente, del dibattito sulla guerra. Mi fa male al cuore. Penso, e cerco di farmi le domande difficili. Questa è la prima e la più importante.

Le profughe ucraine rinunciano a portare una valigia in più per mettersi al collo i loro gatti e cani. Siamo nel terzo millennio, e la vita ha un valore diverso da quando era destino obbligato per i contadini con le zappe in pugno essere mandati dai signori a farsi ammazzare sotto il castello dalle bande nemiche.

Ma se affidiamo alla resistenza armata degli ucraini le sorti di questo conflitto dobbiamo anche accettare, che se toccasse a noi, accetteremmo di mandare a morire i nostri figli al fronte. Voi lo fareste? Io non ho figli ma sono sicura che non lo farei. Niente vale la vita di un figlio. Niente.

Chi da noi aveva fatto la Resistenza armata, scrisse che l’Italia ripudia la guerra. Ripudiare, per la Treccani, significa “non riconoscere più come proprio qualcosa che pur è nostro (o lo era fino a quel momento)”. Non riconobbero più come utilizzabile uno strumento che avevano usato, anche se grazie a quello strumento avevano vinto. Loro, che l’avevano fatta, sapevano che la guerra fa schifo sempre, e sporca anche chi ha ragione. Perché la guerra pulita non esiste, perché in tutte le guerre si ammazza, si stupra, si tortura. In tutte le guerre pagano i civili e gli innocenti.

Non erano ingenui i Costituenti. La guerra era finita, ma il mondo era diviso in due e sapevano che i conflitti non sarebbero spariti dalla faccia della terra. Ma volevano fosse possibile creare nuovi strumenti per dirimerli, per fermare i soprusi, e per evitare alle vittime di dover difendersi da soli armi in pugno.

L’Onu fu inventato da chi aveva fatto due guerre mondiali, e sconfitto il nazismo. Doveva prevenire le guerre, e essere anche la polizia del mondo. Come nella vita civile: se subisco una aggressione, non sta a me inseguire i colpevoli imbracciando un fucile - c’è qualcuno delegato a farlo al posto mio, e in teoria secondo regole e vincoli stringenti.

Tutto questo percorso, questo importante tentativo di civilizzazione dei conflitti, una delle più importanti conquiste dell’umanità, è sparito nel dibattito pubblico. Da anni, e da molte guerre fa. Con la guerra in Ucraina è stato definitivamente seppellito dal dibattito politico. E pare anche con soddisfazione, quasi con sollievo.

Sia ben chiaro: gli ucraini invasi dalla Russia hanno secondo il diritto internazionale tutto il diritto di resistere, e di scegliere la forma in cui esercitare la loro resistenza, anche armata. Ma chiunque abbia qualche forma di potere, politico o intellettuale, da una parte e dall’altra delle odierne barricate, dovrebbe prima di parlare chiedere scusa in primo luogo alla popolazione ucraina, e anche a quella russa e a tutto il mondo, per non aver saputo prevenire l’invasione e aver fatto finta di non vedere il conflitto che si preparava. Dovrebbe battersi il petto, per aver così consentito il ritorno alla pratica e alla retorica della necessità della guerra che a nessun popolo dovrebbe essere consentito. E avrebbe dovuto dal primo giorno correre ai ripari, mettendo in campo tutta la forza possibile della diplomazia e della interposizione.

Al contrario, invece che preoccupati sembra che troppi siano contenti di essere tornati alla forza bruta come misuratrice e operatrice di giustizia. È un modo in fondo assai semplice di risolvere i problemi. Hai un problema? Risolvilo. Il terreno di gioco? Quello imposto dall’aggressore. Se lui ti spara, spara anche tu. E io ti aiuto a sparare meglio, perché sei dalla parte della ragione.

Seguendo questa logica, l’unico modo per essere sicuri, in un mondo pieno di tensioni e di interessi sporchi e di follia, è armarsi fino ai denti tutti e tutte, ed essere pronti tutti e tutte in ogni momento a mandare i propri figli a morire. Voi siete pronti davvero?

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