Assassinata la voce della Palestina - di Riccardo Chiari

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L'omicidio della giornalista Shireen Abu Akleh, colpita alla testa da un proiettile durante un’incursione dell’esercito israeliano nel campo profughi palestinese di Jenin, e le immagini del suo funerale con la bara che ondeggia sotto una carica della polizia di Tel Aviv fin quasi a cadere a terra, stanno scuotendo molte coscienze. Coscienze spesso e volentieri dormienti, nonostante la realtà dell'insopportabile conflitto che ha come teatro i territori palestinesi occupati dall'esercito israeliano.

Con una rarissima posizione unanime su un argomento riguardante Israele, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite “ha condannato con fermezza l'uccisione l'11 maggio della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh, e il ferimento di un altro giornalista nella città di Jenin in Cisgiordania”. La puntualizzazione della doppia cittadinanza della reporter di Al-Jazeera, che da oltre vent'anni riferiva la realtà dell’occupazione militare in Cisgiordania, aiuta a spiegare come perfino negli Stati Uniti, davanti a scene che hanno fatto il giro del mondo suscitando una generalizzata indignazione, sia montata la protesta. A tal punto da far rinunciare al governo di Washington l'abituale, acritico sostegno a Israele.

Shireen Abu Akleh è stata la settima giornalista uccisa nei territori palestinesi dal 2018, ricorda Reporters sans frontie'res. Per lei il Consiglio di sicurezza ha chiesto una indagine “immediata, approfondita, trasparente e imparziale”. Questo anche per rispondere al premier israeliano Naftali Bennett, e ad altri esponenti del governo e diplomatici, pronti a dire che la responsabilità della morte di Shireen è da attribuire solo ai palestinesi, rei di aver aperto il fuoco contro i reparti militari entrati nel campo profughi di Jenin. Nel mentre Israele ha appena annunciato la costruzione di più di 4.000 nuove case in Cisgiordania. Altra benzina sul fuoco dell'ennesima guerra che, da decenni, insanguina il pianeta.

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