Bankitalia non ha più idee, solo pregiudizi - di Alessandro Volpi

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Le “Considerazioni finali” del governatore di Bankitalia sono davvero sconcertanti e, in realtà, fin troppo schematiche, tanto da essere facilmente sintetizzate in breve. A giudizio di Visco l’Italia rischia una seria recessione a causa dell’inflazione, che dipende quasi totalmente dall’energia, dai beni agricoli e da alcune materie prime. Le sanzioni sul gas russo renderebbero ancora più dura la recessione in arrivo. Per evitare che questa recessione peggiori, aggiunge Visco, occorre scongiurare un aumento “strutturale” dei salari, che trascinerebbe ancora più in alto l’inflazione, come negli anni Settanta, e non bisogna fare ricorso al debito perché è già troppo grande. Sono ammissibili solo interventi mirati di sostegno alla capacità di consumo degli italiani, senza però fare scostamenti di bilancio. In sintesi, con una certa crudezza si potrebbe dire che i poveri diventeranno più poveri e moltissimi diventeranno poveri per effetto dell’inflazione, ma l’Italia eviterà il disordine di bilancio; una rinnovata austerità davvero fuori tempo massimo.

Si tratta di una ricetta, come accennato, quasi paradossale proprio alla luce delle condizioni dell’economia italiana, che sta in effetti avviandosi verso una fase di grande difficoltà rispetto alla quale persino ogni previsione di tipo quantitativo rischia di essere un puro esercizio formale. Sono diversi gli elementi che fanno presagire un rapido peggioramento. In primo luogo il nostro paese è caratterizzato da un sistema di trasformazione in larghissima parte dominato dalla piccola impresa; le centinaia di migliaia di microimprese italiane dovranno fare sempre di più i conti con un forte aumento dei prezzi dell’energia, delle materie prime e dei semilavorati, che difficilmente riusciranno ad assorbire. Le catene di approvvigionamento sono paralizzate dalla pandemia cinese, dalla guerra e da una serie di colli di bottiglia logistici che, insieme alla natura speculativa dell’inflazione, stanno rendendo l’insieme dei costi d’impresa non più sostenibile per realtà che hanno bassa capitalizzazione e un difficile credito bancario.

L’inflazione, che continuerà a correre, sta erodendo il mercato interno, bruciando i consumi e il potere d’acquisto con effetti di brutale impoverimento di fette crescenti della popolazione; è sufficiente ricordare a questo riguardo che circa cinque punti dell’attuale inflazione vicina al 7% dipendono da fattori che non sono contemplati nell’indicizzazione dei salari. Questo significa che i salari, già molto bassi, diventeranno ancora più poveri in termini reali.

Come ormai ampiamente dimostrato i salari italiani sono fermi da trent’anni, il tasso di disuguaglianza nei redditi e nei patrimoni è aumentato in maniera esponenziale, il carico fiscale sui patrimoni e sulle rendite si è sensibilmente alleggerito, a causa delle tante cedolari piatte, la struttura dei contratti di lavoro si è spostata in direzione della precarietà e la più volte gridata bassa produttività delle imprese italiane dipende da una dimensione micro delle imprese che non è stata mai affrontata in maniera strutturale. Nel frattempo gli ammortizzatori sociali e il ricorso alla cassa integrazione sono già estremamente costosi in termini di spesa pubblica, ma risultano del tutto insufficienti. Anche la creazione di nuovi posti di lavoro manifesta una sostanziale tendenza alla ristrutturazione dell’occupazione, con oltre la metà dei nuovi occupati che ha un contratto a termine.

In simili condizioni, nel paese delle disuguaglianze e dei redditi fermi, l’inflazione significa la peggiore delle imposte perché colpisce tutti indiscriminatamente e non intervenire, immaginando scenari di austerità e di irrigidimento dei vincoli di bilancio, vuol dire accendere la miccia dello scontro sociale. Peraltro si tratta di un’inflazione ben diversa da quella degli anni Settanta che dipendeva da una reale carenza di offerta di greggio, causata nel 1973 e nel 1979 da veri e propri blocchi delle esportazioni e da un sistema globale di produzione dell’energia decisamente più polarizzato e con minori disponibilità complessive in termini reali. Oggi l’inflazione energetica è per due terzi speculativa, quindi dal governatore di Bankitalia ci si sarebbe aspettati quantomeno un accenno a questa differenza sostanziale, e magari qualche indicazione in merito.

Questa “nuova” inflazione indica poi che neppure l’ombrello dell’euro è in grado di fermare l’aumento dei prezzi; nell’Eurozona l’inflazione viaggia intorno all’8% e minaccia di salire ulteriormente, manifestando un fenomeno che non si era mai verificato dalla nascita della moneta unica. Di nuovo, se non si ferma la speculazione sui prezzi, non basta certo lo scudo dell’euro, neppure se, come vorrebbe Visco, si varasse una politica monetaria restrittiva. I prezzi dell’energia sono in dollari e dunque il dollaro si rafforzerà per la domanda mondiale di dollari mentre l’euro, pur blindato dal rigore dei conti pubblici, non avrà capacità di tenuta. Pertanto si imporrano ulteriori sacrifici ai cittadini europei destinati a rivelarsi inutili.

Per fronteggiare un simile crisi in arrivo servirebbero invece almeno quattro diverse tipologie di interventi.

 

  1. La riduzione della natura finanziaria dei prezzi, eliminando quanto più possibile i meccanismi speculativi. Ciò significa riportare, prima di tutto in termini normativi, la finanza dei derivati al ruolo di strumento di assicurazione contro le oscillazioni di prezzo dell’economia reale. I prezzi devono essere il risultato dal rapporto fra offerta e domanda reale, non il portato di scommesse. Questo implica una modifica della normativa italiana e dei regolamenti comunitari, in particolare di quello del 2012.

  2. L’adozione di un sistema di indicizzazione delle retribuzioni che difenda il potere d’acquisto reale, muovendo dal presupposto che oltre dieci anni di deflazione hanno smontato questi meccanismi che ora con la ripresa dell’inflazione, dipendente dell’energia in primis, sono indispensabili. Si tratta di un’esigenza che non può essere affidata solo ai rinnovi contrattuali che arrivano tardi, sono insufficienti e coprono una parte limitata dei lavoratori.

  3. La creazione di un’agenzia europea per il collocamento dei debiti pubblici. È evidente che il principale strumento utilizzato di fronte alle crisi del 2008 e del 2011, in particolare dopo il 2012, è stato costituito dall’azione espansiva delle banche centrali. Oggi l’inflazione rischia di paralizzare questa azione monetaria che ha permesso di finanziare gran parte della spesa pubblica con il debito a tassi negativi. Bloccare un simile strumento decisivo avrebbe dunque riflessi sociali drammatici; per scongiurare tale scenario serve un’agenzia europea che sostenga i debiti pubblici nazionali, continuando a consentirne il finanziamento a tassi decisamente sostenibili. A questo riguardo occorre aggiungere un ulteriore elemento di chiarezza. La pandemia è stata affrontata in termini economici con il ricorso alla spesa pubblica e al debito. Oltre 200 miliardi di euro, in due anni, in larghissima parte finanziati con l’emissione di debito, di fatto garantito e acquistato con risorse della Bce. Ciò è avvenuto a tassi di interesse prima negativi e poi saliti, nel caso dei decennali, fino al 2%. In sintesi, la crisi è stata contenuta attraverso l’intervento dello Stato e attraverso il debito “europeo”. Oggi, i tassi di interesse dei Btp a dieci anni sono saliti al 3,15% e quelli indicizzati sono schizzati sopra il 5%; una lievitazione improvvisa ma destinata a crescere ancora perché se l’inflazione arriva al 7-8% non basteranno neppure rendimenti al 3,5%. Peraltro, in questo momento i titoli italiani rendono quanto quelli statunitensi, ma si tratta di una situazione del tutto provvisoria. Dunque, nei prossimi mesi il pericolo vero è un forte aumento del costo degli interessi, che potrebbero riavvicinarsi ai 90 miliardi di euro annui, e una paralisi, di fatto già annunciata, dagli acquisti ad opera della Bce. In estrema sintesi, l’inflazione potrebbe far saltare intere reti di protezione sociale se non si creano strumenti in grado di non trasferire la stessa inflazione sul costo del debito: non possiamo fare davvero a meno di una politica economica e monetaria.

  4. Il varo di una vera riforma fiscale che punti a redistribuire i carichi tributari con un inasprimento del prelievo marginale sulle rendite, sulle successioni e sui patrimoni superiori al milione di euro, per ridurre la pressione sul lavoro e per abbandonare l’idea che l’intera riforma fiscale possa essere basata sulle aliquote della imposizione sui redditi da lavoro dipendente. Senza queste misure, le attuali condizioni dell’economia internazionale, e italiana, tenderanno a generare un ulteriore, rapido approfondimento delle disuguaglianze a cui si lega una radicale rabbia sociale da troppo tempo senza risposta.

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