Conflitti e guerre: quali ricadute sociali - di Giancarlo Albori

Stella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattiva
 

Il convegno di Lavoro Società Slc Cgil.  

Come rendere conto dell’iniziativa nazionale, che come Lavoro Società per una Cgil unita e plurale Slc Cgil, con il sostegno confederale, abbiamo svolto a Milano il 21 e 22 giugno in Camera del Lavoro? Un lavoro collettivo a cui va ascritto il risultato positivo. La ricchezza degli interventi e della discussione della due giorni non è riassumibile, i materiali sono a disposizione sulla nostra pagina: https://youtube.com/channel/UCKGD3BxPLa4gPBnrMQLdsAw. Le visualizzazioni che abbiamo avuto durante il convegno sono davvero incoraggianti.

Veniamo al merito. Il nostro intento era quello di portare soggetti autorevoli a discutere oltre il contingente, per fornire alla più ampia platea possibile una riflessione che inquadrasse nella loro complessità quanto accade.

Il primo dato che emerge è il nesso strettissimo fra guerre, crisi economiche, ambientali e pandemiche. Disgiungerle significa privarsi di un adeguato strumento di lettura, che impedisce di capirne le dinamiche, la dimensione mondiale e i suoi aspetti che, incubati in decenni, sono diventati dirompenti, proponendoci un cambio di paradigma su cui la stessa definizione di crisi sistemica appare insufficiente.

A noi non occorrevano le dichiarazioni di Larry Fink, presidente della “roccia nera”, il fondo statunitense Blackstone capace di orientare le proprie azioni di tutto il mondo e le decisioni dei governi, forte dei fondi amministrati per circa 10mila miliardi di dollari, di cui un terzo in Europa. Nella lettera inviata agli azionisti annunciava la fine della globalizzazione e il ridisegno delle catene del valore dovute al Covid e alla guerra in Ucraina, che hanno messo a terra le dinamiche produttive. Da qui l’esigenza di una transizione.

La verità è che da quel dì i processi di globalizzazione, voluti da lorsignori, mostrano la corda, il loro portato di ineguaglianze, precarizzazione, conflitti, devastazioni ambientali che ci portano verso esiti drammatici.

Difficile fare analogie col passato, ma se dobbiamo farne una non è con la crisi del 1929 in sé, ma semmai con l’epoca della grande crisi che dal 1917 al 1945, attraverso rivoluzioni, controrivoluzioni, depressioni, guerre mondiali, crollo di imperi, emergere di nuove potenze, ha messo le basi per la trasformazione di paradigmi produttivi di consumo e culturali.

Le tecnologie digitali, l’intelligenza artificiale sotto il comando del capitale, si configurano come la più spietata forma di comando e dominio sull’uomo e la natura.

Abbiamo, per quanto possibile, affrontato la questione della moneta nelle sue varie sfaccettature (il cambio euro dollaro a 1,02 era lì drammaticamente a confermarci l’esito della guerra nei rapporti Usa-Europa e le possibili aggressioni speculative per la nostra economia, visto l’alto debito del nostro Paese).

Guerre e conflitti, 30 in questo momento, 15 situazioni di crisi, 13 missioni Onu, sono lì a dirci che la guerra in Ucraina, col suo portato di devastazione intollerabile, va ad inscriversi in un contesto ben preciso. Il fatto nuovo, dirompente, è che a contendersi sono due “blocchi” con potenza nucleare.

Per riprende il filo del discorso e concludere: siamo al tramonto della grande illusione della globalizzazione capitalista, per la verità, e noi lo avevamo visto quando, alle ore 20 del 24 marzo 1999, insieme ai primi missili su Belgrado, cadeva rovinosamente l’ultima illusione del XX secolo: la teoria del doppio arco dorato per la prevenzione dei conflitti. Elaborata da Thomas Freedman, editorialista di punta del New York Times, immaginifico cantore del dipartimento di Stato Usa, prevedeva che mai due Paesi, dotati entrambi di un McDonald, potessero entrare in guerra l’uno contro l’altro, almeno a partire dal momento in cui in qualche città avessero eretto il doppio arco dorato disegnato dal logo assurto a marchio e simbolo della globalizzazione a stelle a strisce.

Eppure proprio a Belgrado, capitale della Repubblica socialista federativa di Jugoslavia, era stato edificato nel fatale 1989 il McDonald allora più grande del mondo, due piani, trecento posti a sedere di fronte all’hotel Moscova, simbolo scintillante dell’american way of life, sogno della volontà di imboccare un’altra strada per abbracciare cucina, cultura e capitalismo americani, arrampicarsi fiduciosi sull’ottovolante della globalizzazione.

Allora, ai primi lampi dei bombardamenti, venne invaso insieme ad altri 14 McDonald della Serbia da una folla inferocita, vetrine in frantumi, cucine e registratori di cassa divelti e distrutti. 

Oggi le grandi imprese occidentali si ritirano dalla Russia. 

Vi è qualcosa di davvero forte in tutto questo, l’ennesima conferma di quello che Sergio Bellucci, nel suo intervento, ha definito, recuperando Marx: transizione ben oltre la crisi sistemica.

©2024 Sinistra Sindacale Cgil. Tutti i diritti riservati. Realizzazione: mirko bozzato

Search