Ripensare il carcere minorile - di Denise Amerini

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L’evasione di sette giovani detenuti dal carcere minorile Beccaria di Milano, nel giorno di Natale, conclusasi in pochi giorni con il rientro di tutti nell’istituto, ha momentaneamente riproposto il tema delle condizioni di vita dei minori ristretti, della situazione in cui versano gli Istituti Penali per Minorenni (Ipm) nel nostro Paese.

Molti si sono soffermati sui lavori di ristrutturazione che durano da anni, sul progressivo impoverimento di un istituto che era considerato un modello di riferimento. Diverse voci si sono levate a chiedere maggior controllo. Pochi invece hanno sottolineato come vivono i giovani ristretti, chi sono, perché si trovano lì. Un recente rapporto dell’sssociazione Antigone evidenzia, oltre all’assenza ventennale di un direttore dell’istituto, con ‘facenti funzione’ che si sono succeduti nel tempo, le celle anguste, la carenza di personale, un clima detentivo teso, dovuto anche al fatto che le attività trattamentali trovano difficoltà a tradursi in percorsi efficaci di inserimento lavorativo.

Gli Ipm in Italia sono 17 ed ospitano circa 400 persone, la metà minori di 18 anni. Per legge possono essere detenuti anche maggiorenni, fino a 25 anni, se il reato è avvenuto prima del compimento dei 18 anni. I reati più frequenti sono quelli contro il patrimonio e contro la persona. La maggior parte dei minori ristretti è in attesa del primo grado di giudizio.

Le norme, soprattutto dopo il Dlg 121/2018, che realizza quanto previsto per i minorenni dall’art. 79 della L. 354, definiscono le misure penali di comunità, sottolineando che devono tendere alla responsabilizzazione, all’educazione, al pieno sviluppo psico-fisico del minorenne, e a prevenire la commissione di ulteriori reati. In più, che devono essere favoriti percorsi di giustizia riparativa e implementate tutte le misure alternative quali messa alla prova, detenzione domiciliare, semilibertà. Tutto questo all’interno di un progetto educativo personalizzato “dal carattere non meramente formale”. La rieducazione, compito fondamentale, come stabilisce la nostra Costituzione.

La domanda che ci pone anche questa evasione riguarda proprio questi temi: non la necessità di costruire muri più alti per impedire le fughe e di maggior controllo, ma di percorsi veri di educazione, inclusione, formazione. A maggior ragione visto che la stragrande maggioranza sono ragazzi che provengono da situazioni molto difficili, di povertà non solo economica, di fragilità. Dovremmo riflettere sulla necessità di ripensare i modelli: la punizione non è la modalità migliore di rieducazione, soprattutto se fine a se stessa. Se il carcere deve essere luogo di ripensamento su se stessi, di costruzione di alternative rispetto al passato e di prospettive per il futuro, di reinserimento, questo a maggior ragione è vero per quanto riguarda i giovani. Servono educazione, formazione, lavoro. E per far questo è indispensabile investire anche sul personale, che si trova a lavorare in situazioni complesse, in condizioni difficili.

Dobbiamo evitare che quanto successo al Beccaria e altrove venga strumentalizzato dai troppi che chiedono ‘certezza della pena’ e punizioni esemplari, perché punire non è educare. Il carcere, ed a maggior ragione il carcere per i minori, non può essere uno strumento per allontanare dal mondo, dalla società, le situazioni difficili, non può essere un contenitore di marginalità, devianze, povertà.

Il garante nazionale Mauro Palma lo sottolinea sempre: il tempo della sottrazione di libertà non può essere un tempo vuoto, e la finalità rieducativa è un diritto soggettivo di ogni persona reclusa.

Interroghiamoci su quanto siamo noi a sottrarci dall’assunzione di responsabilità nei confronti di questi giovani, su quanto con pulsioni securitarie non rispondiamo alle esigenze di ragazzi che troppo spesso hanno alle spalle percorsi di vita molto problematici, su quanto non fornire loro opportunità sia condannarli a un destino segnato.

Ricordiamo anche che buona parte dei ragazzi rinchiusi sono minori stranieri non accompagnati, che non hanno trovato nessuna forma di accoglienza e sono rimasti allo sbando, facile preda per la criminalità.

Giungono, mentre scriviamo, le notizie di tensioni all’Ipm di Casal del Marmo, a Roma, che vede come il Beccaria dotazioni organiche inadeguate, incarichi dirigenziali temporanei. Pensiamo a quanta sofferenza ci può essere dietro una protesta che nasce per un ritardo nella somministrazione di farmaci ansiolitici: la garante del Lazio, Gabriella Stramaccioni, ci dice come questi ragazzi chiedano continuamente farmaci, e chiamino quello dei farmaci il ‘carrello della felicità’. Solo questo dovrebbe bastare a farci riflettere su quanto questi episodi siano l’emersione, drammatica, di un disagio che necessita di ben altre risposte che l’isolamento e la punizione. Giovani ristretti e personale sono entrambi vittime di un sistema che non funziona, che disumanizza.

Il tema dei diritti delle persone ristrette, della umanizzazione della reclusione, ci riguarda tutti da vicino, dice dello stato di salute della società in cui viviamo.

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