Un 2023 duro e difficile. Per la Cgil un anno di lotta e di speranza - di Giacinto Botti

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Il 2023, sul piano sociale, economico e ambientale sarà un anno duro per chi rappresentiamo, per chi vive nella precarietà di vita e di lavoro, con una pensione da lavoro che non si rivaluta mai abbastanza, di salari sempre più poveri, per le donne e i giovani che pagano per primi la crisi di sistema, economica, sanitaria e sociale di questi anni.

Sarà un anno impegnativo per il sindacato, per tutti noi. Ci sarà bisogno della Cgil. Il nostro congresso dovrà parlare al Paese, in sintonia con i bisogni di chi rappresentiamo, e consentirci di alzare lo sguardo e dare risposte alternative, con l’obiettivo di una Cgil coesa, rappresentativa, insediata nei luoghi di lavoro e nei territori, rinnovata nel suo gruppo dirigente, unita e plurale, autonoma, forte della coerenza delle sue scelte e delle sue lotte.

Una Cgil impegnata a dare continuità alla mobilitazione generale e territoriale contro le scelte del governo, a dare voce al mondo del lavoro e alla parte più debole della popolazione che paga anche le conseguenze della guerra nel cuore di un’Europa divisa, subalterna agli Usa, della grave situazione climatica e ambientale, dello scontro geopolitico tra imperi che ridisegna i confini del mondo e le alleanze. Tutto questo influenzerà i mercati e ci saranno nuovi aumenti delle materie prime, con difficoltà negli approvvigionamenti.

Occorre dire basta alla guerra e lavorare per una tregua subito per giungere alla Pace possibile, da perseguire con la diplomazia, non con l’invio di armi, con politiche belliciste o con l’aumento delle spese militari. Bisogna aver paura di chi pensa che le armi portino alla Pace.

In assenza di un’opposizione politica al governo e di una sinistra all’altezza dello scontro, si dovranno recuperare consenso e partecipazione attorno alle nostre rivendicazioni confederali e di categoria e ai nostri valori. Dovremo fare i conti con i nostri limiti, la spoliticizzazione e la desindacalizzazione, la disaffezione alla partecipazione.

Risalire la china dell’arretramento culturale, tornare a battersi per i valori, contrastare la delega verso chi esercita un potere e una funzione rappresentativa. Rafforzare militanza e tesseramento perché senza un mutamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro non costruiremo un futuro migliore.

Il governo Meloni, con la finanziaria, in continuità con l’agenda Draghi, si conferma di destra, classista, liberista, razzista e antidemocratico. Meriterebbe uno sciopero solo per la disumanità che dimostra verso i più deboli, i migranti, verso chi salva vite nel Mediterraneo. Un governo tracotante, che punta ideologicamente sul “non disturbare chi vuole fare”, col risultato di destrutturare le garanzie e i diritti di chi lavora, precarizzare il lavoro, liberalizzare il mercato e privatizzare lo Stato e il sistema pubblico, salvaguardando gli interessi privati e corporativi del suo blocco sociale. Nell’Italia fragile e diseguale la crisi sarà pesante: l’aumento dei prezzi e dell’inflazione, e la recessione, comporteranno conseguenze gravi sul tessuto produttivo, sui salari, sulle condizioni di milioni di persone. Sul futuro delle nuove generazioni.

Senza risorse economiche e scelte alternative si avrà un impoverimento generale, ed a pagare il prezzo più alto sarà ancora il mondo del lavoro, i pensionati, i meno abbienti. Ridistribuire la ricchezza, colpire gli evasori, tassare le rendite per recuperare risorse sono politiche negate da un governo che colpisce i poveri e ridistribuisce ai ricchi.

Un governo bellicista di “legge e ordine” che amplia i decreti sicurezza di Salvini per reprimere i giovani, partecipanti ai rave o ambientalisti, per intimidire ogni lotta radicale di opposizione di chi manifesta in difesa dei diritti sociali e civili, per il lavoro e una scuola migliore. È un governo autoritario di “pericolosità pubblica”, a cui è stato consentito di esercitare una “dittatura della maggioranza”, lontano dai principi della Costituzione antifascista. Per la prima volta con una donna presidente del Consiglio che, per storia e cultura rimane legata al fascismo, incapace di prendere le distanze dal ventennio, connivente con la partecipazione della seconda carica dello Stato alle celebrazioni della nascita del Msi. Nel 75° anniversario della Costituzione si è reso onore ai militanti e fondatori di un partito di fucilatori di partigiani, di reduci e collaborazionisti di Salò, che nulla ha avuto a che fare con la costruzione della Repubblica antifascista.

La presidente del Consiglio ha giurato sulla Costituzione, ma balbetta sull’assalto fascista alle istituzioni brasiliane come due anni fa su quello al Parlamento americano, entrambi orchestrati da leader per lei di riferimento: Trump e Bolsonaro. Giorgia Meloni deve fare i conti con la sua storia: ci dica se la sua concezione di democrazia e di nazione è ancora quella di governi sovranisti e nazionalisti come quelli di Polonia e Ungheria.

Un governo che vuole il presidenzialismo e l’autonomia differenziata, senza confronto parlamentare e senza un referendum popolare: una revisione costituzionale disgregativa dell’unità del Paese e della democrazia parlamentare, che ne snatura l’impianto. La Costituzione antifascista, le istituzioni, la democrazia parlamentare e rappresentativa vanno protette; esse si fondano sullo stato di diritto costruito su pesi e contrappesi, sulla suddivisione fra i poteri, sull’informazione e la libertà di stampa. Si vuole la secessione dei ricchi. Le regioni dei “governatori” diverranno ancora di più monarchie, feudi con il monopolio sulla sanità e l’istruzione, un tempo primazie del sistema pubblico nazionale.

La Costituzione è stata per anni svilita, non applicata dai vari governi di questi anni. A partire dal diritto al lavoro e al servizio pubblico, dall’eguaglianza di genere e di ceto e dalla progressività fiscale, sino all’antifascismo e al ripudio della guerra.

Allora, nell’anno iniziato, dovremo riscoprire il significato del pensiero alto, delle nostre idee e dei nostri valori; dovremo riprendere a rivendicare e lottare per riscrivere un’altra storia e un altro mondo possibile. In questi anni si sono persi quell’egemonia culturale e politica sulla società richiamata da Gramsci, e quel consenso popolare che non si riconquistano senza la battaglia delle idee.

La nostra mobilitazione confederale generale dovrà intrecciarsi con l’azione contrattuale nel rinnovo dei contratti nazionali e territoriali, sapendo mettere coerentemente dentro al quadrato rosso contenuti che abbiano al centro l’aumento adeguato del salario - e non surrogati di esso -, la riduzione e il controllo degli orari per ridistribuire il lavoro, tornando ad essere autorità salariale e di governo dell’organizzazione del lavoro.

La nostra sarà un’opposizione culturale, sociale e di merito sindacale, ma nello scontro generale diverrà opposizione politica al governo e alle sue scelte. Dovremo, nei tempi giusti, costruire le alleanze sociali e politiche e le condizioni per riempire ancora il Circo Massimo.

 

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