“Con la cultura non si mangia"? - di Barbara Calbiani

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Intervento al congresso Slc Cgil di Milano il 22 dicembre scorso.

Buongiorno a tutte e a tutti. Io sono una lavoratrice dello spettacolo. Sono una dipendente del Piccolo Teatro della città di Milano. Sono della Rsu. E' la prima volta che partecipo a un evento sindacale come questo. Da giovane ho fatto politica, ma era tutto diverso. C’erano i partiti, le organizzazioni politiche. Oggi ci troviamo di fronte a una profonda crisi della politica, che si traduce in crisi dei partiti, e io sento che la politica mi manca.

Non vi nego che a me piacerebbe trovare nel sindacato un luogo della politica: quella vera, quella della partecipazione, del confronto, della crescita collettiva, dell’azione concreta che cambia le vite delle persone sul territorio, sul luogo di lavoro. E mi sono ritrovata in quanto detto dal segretario nella sua relazione, quando ha parlato dello sforzo messo in campo dalla Cgil per incontrare milioni di persone su tutto il territorio nazionale in occasione di questo congresso. Dunque il sindacato è rimasto forse l’unica realtà in grado di incontrare e organizzare le persone, farle discutere, cercare di comprenderne e interpretarne sogni e bisogni. Dunque eccomi qua.

“Con la cultura non si mangia”. È una frase ieri risuonata parecchie volte. Fu resa famosa alcuni anni fa dal ministro Tremonti. Fece successo. È una frase che corrisponde alla logica della “cultura popolare” di cui ci parlava ieri Aufieri. Quel populismo secondo cui chi si occupa di cultura rappresenterebbe un’élite con la puzza sotto il naso, mentre i problemi veri stanno altrove. E oggi, col nuovo governo, questa frase sempre di più aleggia, a partire da un provvedimento apparentemente piccolo come l’abolizione della app18.

Ci sono fior di studi e di esperienze concrete in tutto il mondo che dimostrano ampiamente il valore della cultura come volano economico e di sviluppo. Ma non intendo parlare di questo. Vi racconto una storia che a me sta molto a cuore.

A Milano, nell'aprile del 1945, per le strade c’erano almeno due milioni di metri cubi di macerie. Caseggiati distrutti, famiglie senza casa. Scuole distrutte. Alcuni tra gli edifici pubblici più importanti e famosi danneggiati o distrutti: la Sormani, Palazzo Marino, Palazzo Reale, l’ex Villa Reale, l’Arena, l’Acquario, il Museo di Storia Naturale, il Poldi Pezzoli, il Vigorelli. Alcuni importanti edifici religiosi distrutti o gravemente danneggiati, tra i quali Santa Maria delle Grazie, Sant’Ambrogio, San Fedele, Santa Maria del Carmine, San Lorenzo. Solo per citarne alcuni. Alcune delle più importanti fabbriche distrutte o gravemente danneggiate, tra le quali Alfa Romeo, Caproni, Isotta Fraschini, la Manifattura Tabacchi. Impianti per il pompaggio dell’acqua danneggiati. 400 tram distrutti, 200 danneggiati. Distrutte 18mila lampade (su 23mila) dell’illuminazione pubblica. Almeno 500mila etri quadrati di pavimentazione stradale danneggiata. Distrutte 50mila piante sulle 80mila censite nel 1942.

Questa era la situazione di Milano alla fine della guerra. Il sindaco della Milano liberata, il partigiano socialista Antonio Greppi, a iniziare dal 27 aprile del 1945 dovette affrontare tutte le emergenze di una città che veniva da cinque anni di guerra. Ecco una sommaria lista delle prime cose che mise in campo: raccolta di tutti gli autocarri disponibili per avviarli nei centri agricoli dove tedeschi e fascisti avevano accumulato le riserve di grano; riattivazione ridotta del servizio tramviario su tutte le linee; organizzazione di turni notturni della vigilanza urbana, per impedire che la spirale delle rappresaglie e delle vendette che seguirono alla lotta di Liberazione continuasse a creare ancora spargimenti di sangue; riorganizzazione e finanziamento dell’Ente Comunale di Assistenza per l’aiuto agli indigenti, agli orfani, agli invalidi; creazione del Fondo Matteotti per il sostegno delle famiglie più colpite dalla guerra; creazione del Fondo Penicillina, che allora era un vero e proprio farmaco salvavita; contratto per lo sfruttamento di una foresta di larici e pini in Val Seriana per rifornire di legna le caldaie cittadine. E naturalmente l’avvio della costruzione delle case popolari e, nel frattempo, realizzazione di case prefabbricate (le baracche) in viale Argonne, via Lorenteggio, a San Siro, ecc.

Poi attenzione, udite, udite: costituzione di una commissione speciale e avvio dei lavori per la ricostruzione della Scala. Telegramma ad Arturo Toscanini per annunciargli l’ambizioso programma di riapertura della Scala. Il concerto inaugurale, con il grande maestro sul podio, si terrà l’11 maggio 1946, a poco più di un anno dalla liberazione della città. Solo un anno dopo, il 15 maggio del 1947, il sindaco Greppi, insieme ai giovani visionari Paolo Grassi, Giorgio Strehler e Nina Vinchi, inaugurò il Piccolo Teatro della Città di Milano, nel luogo che era stato la sede della famigerata Muti: da un luogo di dolore e sofferenza nasceva un luogo di bellezza. Il primo teatro pubblico in Italia, il cui motto era “un teatro d’arte per tutti”. Per il sindaco Greppi la ricostruzione non era solo materiale. Andava ricostruito lo spirito della città.

Ecco, il sindaco Greppi credo avesse capito una cosa molto importante: che la cultura rappresenta qualcosa di cui non possiamo fare a meno se vogliamo definirci davvero “umani”. Non possiamo pensare di soddisfare solo i nostri bisogni primari: saremmo poco più che animali se dovessimo pensare solo a mangiare, bere, riprodurci, avere una casa e un lavoro. La nostra dignità di esseri umani si fonda sulla vita che ognuno di noi si sceglie. Sul tempo della propria vita. Sulla possibilità di realizzarsi nel lavoro ma anche fuori dal lavoro. Dunque di svagarsi di crescere, di socializzare, di riflettere, di farsi opinioni, di confrontarsi, di farsi una propria cultura. Di essere uomini e donne liberi e libere. Con una propria coscienza critica.

Chiaramente questo non significa dimenticarci delle ingiustizie sociali, della povertà, di chi è sfruttato, di chi è senza casa o senza lavoro. Anzi, come dimostra proprio il primo sindaco della Milano liberata dal nazifascismo, i binari devono correre insieme.

Apro una parentesi. Uno degli aspetti che più mi irrita di certa vulgata politica è il ragionamento per “priorità”: è più importante questo di quello. C’è sempre qualcosa di più importante. È la logica del benaltrismo. Quella che ci mette spesso gli uni contro gli altri. Fa molto comodo alla destra metterci gli uni contro gli altri. Trovare sempre il capro espiatorio. Il nemico da combattere che il più delle volte è colui che non può difendersi. I profughi sui barconi, per esempio. Così come fa comodo trovare sempre qualcosa di più urgente a cui dare la precedenza. La priorità, appunto. Tipo i rave party. Questo rispetto ad altre tematiche ritenute “non urgenti”, finché non arriva una pioggia un po’ più forte del normale che si porta via un pezzo di isola e le case che ci stavano sopra. Chiusa parentesi.

Torniamo al valore della cultura. Ecco, se stabiliamo che la cultura (nelle sue svariate declinazioni, comprendendo anche formazione, ricerca…) è importante sia da un punto di vista sociale-morale che anche economico tout court, dobbiamo mettere i lavoratori e le lavoratrici che ne fanno parte nelle condizioni di lavorare al meglio, e soprattutto di farlo con dignità: eppure sappiamo bene che i lavoratori e le lavoratrici di questo settore sono l’emblema vivente della precarietà. ‘Deprecarizzazione’, diceva ieri il compagno Aufieri.

Parliamo dei colleghi e delle colleghe lavoratori e lavoratrici dello spettacolo. Molti e molte che lavorano in questo settore si trovano davvero a “sbarcare il lunario”. Nel senso letterale del termine. A uscire la mattina per trovare il modo di portare a casa la pagnotta per la sera. Spesso non ci sono regole. I più giovani, spesso bravi e qualificati, sono sfruttati o ricattati.

Io lavoro in una scuola di teatro, e non potete immaginare le richieste continue da parte di committenti più svariati che cercano giovani che lavorino gratis con il miraggio del “farsi un’esperienza”, dell’essere “visibili”. Il covid ha messo a nudo la fragilità di molti di questi soggetti, soprattutto giovani, lasciati a sé stessi. E ha sensibilmente peggiorato la situazione.

Mi convince molto la proposta del reddito di continuità. Così come penso che dovremmo aprire il discorso sui contributi silenti, tutti quei contributi versati dai lavoratori e dalle lavoratrici dello Spettacolo che poi non contribuiscono a maturare nessun istituto previdenziale, perché non sufficienti.

Io faccio parte sicuramente di una fetta privilegiata di questo variegato mondo. Ma anche noi, che lavoriamo per istituzioni come il Piccolo Teatro di Milano, non siamo mai al sicuro. Non dobbiamo sentirci al sicuro. Le notizie sui tagli di questi giorni ce lo dimostrano. Siamo sempre sul filo del rasoio, in balia di tagli annunciati, minacciati, ritirati, spesso purtroppo applicati.

Il nostro settore non può, per sua natura, prescindere dai contributi pubblici. Il teatro, in tutte le sue variegate forme, non può vivere autosostenendosi. O peggio, rivolgersi solo ai privati (cosa che significherebbe rinunciare esplicitamente alla propria libertà). Non si tratta di “limare i tagli”, ma di ribaltare il punto di vista, ovvero rilanciare. Chiedere di più. Dobbiamo far passare il concetto che i finanziamenti alla cultura non sono “soldi spesi” ma “investimenti” (come ci ha ricordato ieri Aufieri). Dobbiamo affrontare con radicalità questi temi: mi piace parlare di radicalità recuperando l’essenza di questa parola: le radici. Dobbiamo pretendere che la politica sia più coraggiosa. In passato a Milano lo è stata, dopo la guerra.

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